[di Sergio Maset
Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, il 2 febbraio 2019]
Il processo di smaterializzazione dell’informazione, delle comunicazioni, delle relazioni che, in una certa misura, divengono sempre più virtuali e meno fisiche, ha portato, tra le altre conseguenze, a una forte svalutazione – io direi proprio disconnessione – della funzione dei luoghi. Questo vale in particolare per la funzione politica, nel senso più ampio dell’agorà, ossia lo sviluppo del dibattito e del ragionamento intorno al bene comune.
In generale, le funzioni determinanti per la crescita di una persona e centrali per la società dovrebbero prevedere specifici luoghi deputati allo svolgimento della funzione. È così per la crescita individuale, sostenuta dalla famiglia; è così per l’istruzione seguita dalla scuola; è così, in qualche modo, anche per i riferimenti etico-valoriali con la chiesa; e così dovrebbe essere anche per la politica. Non si tratta di fare un’elegia della sede, né di farsi prendere da una sorta di critica immobiliarista. Il punto fondamentale è che il concetto di “appartenenza leggera”, proiettato sui luoghi, in realtà è l’altra faccia di una visione individualista del percorso politico, nel quale il singolo “leader” ricerca il contatto con la base nel momento elettorale, senza alcun percorso di costruzione di una leadership dialettica: questa richiede luoghi di elaborazione, entro i quali vi sia un senso e un convincimento di continuità, a prescindere dal singolo.
In qualche modo il luogo fisico afferma che l’organizzazione e il suo senso devono sopravvivere a prescindere da chi li stia guidando pro tempore. Gli attuali non luoghi della politica sono figli di una stagione fatta esclusivamente di leader, o aspiranti tali, che costruiscono il loro percorso immaginando già la transitorietà del loro ruolo a quel dato livello, e quindi disinvestono sul territorio, sbilanciandosi verso alleanze leggere con opportuni think tank esterni, questi sì strutturati e in sedi prestigiose. Le scuole di partito, come anche le scuole sindacali, nazionali e regionali invecchiano e si indeboliscono; i contenuti decisionali vengono esternalizzati; la scelta conseguente è un disinvestimento nella sede, il primo luogo di incontro con il territorio.
Rispetto a questo l’esperienza di Forza Italia è stata un’espressione anzitempo del concetto di disintermediazione tanto caro agli analisti politici oggi – mediato, o copiato, o tentato, negli ultimi anni da tanti, incluso lo stesso Renzi. Questo porta a una dicotomia comune nell’esperienza di chi ha frequentato sedi di partiti od organizzazioni: da un lato stanno le sedi – quando e dove ancora ci sono – simili a non-luoghi o stazioni degli autobus, piene di scatole polverose di materiali abbandonati, sporche e fredde; all’opposto gli eventi che si svolgono in sale congressi di alberghi, certo più confortevoli ma altrettanto non luoghi.
Ma accetteremmo un tale svuotamento di senso dei luoghi per le altre funzioni? Accetteremmo come normale una scuola dentro un cinema o in una palestra, o la giudicheremmo una situazione di transitoria difficoltà? Eppure, per quanto riguarda la funzione politica, evidentemente lo accettiamo di buon grado, dato che lo abbiamo accettato negli ultimi 30 anni. I non luoghi della politica sono la logica conseguenza del fatto di avere disintermediato il rapporto con la base. Il punto critico di questo processo è che non si può attivare la partecipazione esclusivamente attraverso strumenti disintermediati. La disintermediazione nella politica non è bidirezionale come tanti sembrano credere: funziona in una sola direzione.
I processi partecipativi non funzionano sulla rete: sulla rete possiamo contare i numeri, i follower, le visualizzazioni, ma non si può perdere di vista il fatto che le persone hanno bisogno di un contesto fisico che sia di stimolo alla loro diretta partecipazione e congruente con le loro capacità cognitive. Nel momento in cui io metto delle persone in una stanza a parlare sto dando loro la possibilità non solo di dire e sentire qualcosa, ma anche di avere riscontro alle loro osservazioni in modo trasversale. Questa possibilità si annacqua nella rete, troppo grande e caotica: si possono registrare le singole voci ma non costruire un percorso. E allora si ritorna a quel ragionamento iniziale: la rete in realtà funziona in maniera verticistica, solo i luoghi consentono una partecipazione trasversale.
Questo il problema di un Forza Italia che deve fare i conti con l’assenza di “uomini e luoghi di mezzo”. Questa sembra essere anche l’illusione originaria dell’approccio renziano. Forza Italia e il PD renziano sono l’espressione della teoria della disintermediazione, molto più del M5S che partiva e mantiene tuttora localmente, l’esperienza dei meetup anche se dovrà inevitabilmente fare i conti con la sua istituzionalizzazione. Diversa ancora è la situazione della Lega, che vive ora la tentazione di un leaderismo disintermediato ma che deve convincere alla prova del confronto con un solido radicamento nei luoghi.
Occorre dunque affiancare ad una rete molecolare immateriale una rete di luoghi, entro la quale si strutturano relazioni, interessi e specialità; il che non significa che le sedi devono diventare elemento di socialità, ma che il territorio ha un ruolo fondamentale; e quindi nel territorio c’è bisogno di una sede che sia dignitosa in maniera non fugace, non estemporanea. Una fulminante imitazione di Fausto Bertinotti fatta da Corrado Guzzanti qualche anno fa, poneva l’accento sull’irreperibilità, anche fisica, delle sedi di Rifondazione Comunista sul territorio, che non solo scompaiono ma divengono sempre più evanescenti: “trovaci compagno, se ci riesci”. In fin dei conti, tutti sappiamo che a fare la differenza in una famiglia sono gli affetti e i progetti comuni, ma non puoi crescere dei figli senza un tetto e un tavolo.