[di Sergio Maset e Andrea Mamprin
– L’articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2022 su VeneziePost]
È corretto interpretare la crescita delle dimissioni volontarie riscontrata negli ultimi trimestri ipotizzando il venir meno, dopo il Covid, dell’importanza che i lavoratori assegnano alla stabilità del lavoro dipendente?
La risposta potrebbe essere assolutamente tranchant. L’analisi dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro di Veneto Lavoro (Bussola, aprile 2022) è pienamente condivisibile e generalizzabile anche ad altre regioni ad alto tasso di occupazione: la propensione dei lavoratori di trovare occasioni di lavoro più soddisfacenti si era pressoché bloccata nel periodo del lockdown a causa della assoluta incertezza presente in quel momento. Il fenomeno che stiamo osservando altro non è che la somma di dimissioni normalmente presenti nel mercato del lavoro a cui si sono aggiunte le dimissioni “posticipate” dovute al lockdown. Dunque, prima di tutto, vi è un fatto quantitativo dato da un mercato che dopo l’inaudito shock del Covid, che ne aveva paralizzato i meccanismi, è entrato in una fase nuova in cui la ripresa della mobilità si accompagna ad alta incertezza sui cambiamenti del lavoro.
Vi è poi spesso la tendenza ad attribuire il supposto maggior disincanto nei confronti dell’occupazione dipendente ai lavoratori giovani, ipotizzando che soprattutto in loro venga meno l’attrazione per la stabilità, riconducendola ad un’ipotetica ridefinizione della scala delle priorità post Covid. Rispetto a questa conclusione si rilevano delle perplessità per almeno due ordini di ragioni. Primo, le traiettorie iniziali nel mercato del lavoro sono frutto di una naturale incertezza dell’età giovanile, in cui si sperimentano delle scelte anche in funzione delle proprie aspettative. (Misure n.110, Veneto Lavoro, aprile 2022). Gli esordi lavorativi sono infatti tipicamente caratterizzati da elevata instabilità a prescindere dal Covid.
Secondo, non bisogna cadere nell’errore di credere che per un giovane il fatto di cambiare un posto di lavoro per un altro sia sinonimo di basso valore assegnato al lavoro e che la minore propensione dei giovani alla stabilità sia un effetto della pandemia. In realtà è vero l’esatto contrario. In un’indagine del 2015 svolta su un campione rappresentativo di 400 cittadini residenti in Veneto andammo ad indagare come cambiavano tra le diverse generazioni le attese circa il lavoro. Quello che emergeva era che i giovani con meno di 30 anni vedono nel lavoro prima di tutto uno strumento di affermazione delle proprie aspirazioni, in misura doppia rispetto a quanto ritengono i loro colleghi più grandi. Danno invece molta meno importanza agli elementi di stabilità in sé (“basta che sia un lavoro” e “basta che sia un posto fisso”) e di conciliazione del lavoro con gli altri interessi o impegni, come ad esempio la famiglia. Per chi è più avanti con l’età, infatti, diventa in generale più rilevante l’attesa che il lavoro sia un fattore di stabilità in quanto tale più che di affermazione di sé.
Le posizioni di lavoro dipendente risultano in crescita in questo trimestre, iniziando ora a riagganciare un trend pre-covid. Si tratta però di tendenze ancora molto fluide e al momento, come evidenziato anche dall’Istat a livello nazionale (Nota Trimestrale, 22 marzo 2022), sono spinte molto dai settori delle costruzioni e dal recupero del turismo e ristorazione. Entrambi i comparti sono, per ragioni diverse, in una condizione di forte alterazione. Per quanto riguarda le costruzioni rileva evidentemente la spinta data dai bonus edilizi (facciate e 110% in primis) per i quali la bolla generata dagli incentivi ha portato ad un fenomeno di sovra domanda (di manodopera come di materiali) con i noti riflessi sul costo / disponibilità dei materiali ma anche di forza lavoro. Analogamente, in ripresa dopo lo shock della pandemia, il settore del turismo ha visto crescere gli occupati sul 2020 ma non raggiunge ancora i livelli del 2019. Il controllo della pandemia sta comportando una ripresa dell’attività turistica con incrementi su base tendenziale delle posizioni lavorative che proseguiranno con ogni probabilità nel corso dell’anno. Rilevante in questo settore l’incidenza della manodopera straniera che, evidentemente, negli scorsi anni, con la riduzione di presenze turistiche in particolare nelle città d’arte, ha cercato soluzioni lavorative alternative acuendo oggi le tensioni stagionali sul fronte della domanda.
L’aumento degli occupati trainato da questi due settori, per quanto ampi e significativi, non deve distogliere però da un tema più ampio e complesso rappresentato dalle trasformazioni generate dai processi di digitalizzazione, internet of things e di riorganizzazione delle produzioni e dei consumi in chiave di economia circolare, in parte accelerati proprio dalla pandemia. Tanto la manifattura quanto i servizi sono in una fase di profonda riorganizzazione; quali saranno le professionalità richieste di qui a qualche anno? Rispondere a questa domanda non è semplice ma è importante per essere in grado di costruire per tempo le competenze necessarie ed evitare fenomeni di aumento dei posti vacanti. Su questi pesa come un macigno il valore della fiducia nei processi di tipo economico. Il lavoratore quando valuta lo scambio del proprio lavoro con retribuzione e benefit, mette anche in conto il costo/opportunità di svolgere una professione piuttosto che un’altra, scommettendo in un certo modo sulla sua impiegabilità futura. Ecco che il fenomeno delle vacancy non riguarda (solo) lavori poco appetibili per il tipo di mansioni (i lavori cosiddetti “brutti e sporchi”), ma anche lavori che scontano una bassa percezione di prospettiva. Le imprese – e il problema può valere anche per settori del pubblico impiego – sulle quali vi sono dubbi circa la capacità di resilienza sono costrette a pagare un tasso di interesse elevato (retribuzioni migliori), a fronte di un elevato turnover (lavoratori sistematicamente in cerca di altre opportunità a prescindere dalla forma contrattuale con cui sono inquadrati) o in alternativa azzardare allargando le maglie (minore selezione).
Relativamente invece al rapporto quantitativo tra domanda e offerta, un’incognita è data dalle tendenze demografiche in atto nella popolazione italiana. Questo punto merita un adeguato approfondimento e verrà sviluppato a breve in un prossimo articolo. Basti per ora ricordare che i bassi tassi di natalità, che da metà degli anni Settanta sono sotto la soglia di rimpiazzo, hanno generato nel corso di questi anni un primo parziale ammanco di forza lavoro che è stato ampiamente coperto dai flussi migratori in ingresso. Negli ultimi anni, e in particolare a partire dal 2013, si è notata una certa stagnazione degli ingressi di stranieri; questo fattore unito al saldo naturale ampiamente negativo ha cominciato ad avere come risultato una flessione della popolazione residente. Questo è di per sé un evento significativo, sia perché nella storia dell’Italia unita si era verificato solo due volte (Prima guerra mondiale e inizio degli anni Ottanta), sia perché in questo caso si sta prolungando molto di più rispetto ai due casi appena citati. È lecito chiedersi, quindi, se e quanto la fase demografica che si sta aprendo vada a incidere sulle dinamiche dell’incontro domanda-offerta di lavoro e quale nuovo equilibrio si potrà configurare nel mercato.
In questa prospettiva e per queste generazioni le politiche attive devono intervenire su percorsi di ridefinizioni professionali sostenendoli sia in costanza di rapporto, nelle imprese, sia nelle situazioni di discontinuità occupazionale affinché transizione ecologica, digitale ed economia circolare, in un contesto di crescente inflazione, non agiscano da fattore di spiazzamento ed esclusione ma siano vissuti come momento di evoluzione. È questa la sfida del 2030 sul piano del welfare per il lavoro.