LA PEDEMONTANA E I CORRIDOI EUROPEI. Governare le scelte come beni pubblici e non come singole imprese

[di Sergio Maset – L’articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2024 su Corriere del Veneto]

Nell’infinito dibattitto tra federalismo e centralismo ha ripreso vigore la discussione sulla gestione delle infrastrutture autostradali. Ed è partita proprio dalla considerazione sui diversi prezzi applicati ai viaggiatori per percorrere corridoi simili su reti autostradali diversi – ad esempio la BreBeMi e la Superstrada Pedemontana Veneta (SPV) rispetto alla storica autostrada A4 (Torino – Trieste). Ora, siamo così sicuri che il problema stia nel federalismo regionale?

Facciamo un esempio: immaginiamo che in un comune ci sia un solo panificio, insufficiente a servire tutta la popolazione, con il risultato che il pane finisce sempre troppo presto. Il comune autorizza, per garantire a tutti un agevole accesso al pane, l’apertura di un secondo forno. Il nuovo fornaio, per rientrare rapidamente dei costi e abbattere il mutuo, decide di applicare un sovrapprezzo a tal punto elevato che in molti decidono di non comprarlo con il risultato che in molti restano ancora senza pane. Di chi è l’interesse a che vi sia pane accessibile per tutti?

Nel caso delle infrastrutture che possono costituire un’alternativa ad altre (il nuovo forno) il problema è molto simile. Pensiamo alle autostrade: l’automobilista che da Brescia deve andare a Milano percorrerà la BreBeMi più costosa ma vuota o la A4 trafficata ma meno costosa? Difficile trovare la risposta. Proviamo allora a cambiare la domanda: se la A4 è trafficata, lenta, incidentata, il problema è solo dell’automobilista e del camionista che la percorrono o è un problema collettivo? La rapidità e la sicurezza delle reti stradali sono o dovrebbero essere un interesse generale. Il ragionamento vale anche per altre reti di trasporto. Pensiamo ad esempio allo sviluppo dell’alta velocità rispetto all’aereo: se il costo dello sviluppo della rete ferroviaria ad alta velocità fosse ricompreso nel costo del biglietto del treno, probabilmente converrebbe viaggiare in first class su qualsiasi aereo anche per fare la tratta Venezia – Milano piuttosto che prendere una Freccia, tanto sarebbe il costo. Dunque, se l’obiettivo è quello di ridurre la congestione e l’inquinamento e aumentare la rapidità e la sicurezza, il costo dello sviluppo dell’alternativa deve essere sostenuto collettivamente, da entrambe le infrastrutture.

Non si tratta, pertanto, di un problema di regionalismo quanto di regolazione delle reti. Certamente un localismo spinto non aiuta, ma un centralismo senza dei criteri di gestione strategica delle reti comporterebbe gli stessi problemi. La SPV non nasce come idea progettuale nella recente stagione ma è presente nella programmazione strategica sin dagli anni ’60. Dunque, se si vuole sgravare rapidamente la A4, che sia in Veneto, Lombardia o Friuli-Venezia Giulia, parte del costo delle alternative (BreBeMi, SPV, ecc.) deve essere ammortizzato dall’intera rete. Lo stesso vale infatti per il tratto a Est della A4.

In questo momento sono ancora (!) in corso i lavori per la terza corsia da Venezia a Trieste: l’adeguamento serve solo per gestire l’emergenza di un tratto interessato troppe volte da incidenti. L’alternativa di sviluppo, spesso ipotizzata anche in Friuli Venezia Giulia, è quella di completare un asse alto, da Pordenone in direzione Tarvisio. Da Verona a Pordenone il corridoio autostradale con la SPV è completato e potrebbe (dovrebbe) dunque proseguire verso l’Austria. Si può fare, certo. Il problema non è federalismo sì o federalismo no, bensì governare le scelte strategiche sui corridoi infrastrutturali come beni pubblici e non come singole imprese.

Gestione sostenibile dell’acqua: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare

[di Luca Pavan]

I problemi legati alla scarsità delle risorse idriche sono rimasti a lungo al di fuori del dibattito pubblico del nostro Paese. La situazione sta tuttavia rapidamente cambiando negli ultimi anni. Se tematiche di questo tipo venivano relegate, almeno nell’immaginario collettivo, a latitudini del mondo decisamente più a sud, ora non sembra più esser così. Non solo le testate giornalistiche italiane, ma anche vari report di istituzioni internazionali, dipingono un quadro sempre più critico, legato soprattutto al riscaldamento climatico. Le Nazioni Unite mostrano che l’indicatore di water stress, ovvero il rapporto tra i prelievi di acqua rispetto alla quantità di risorsa rinnovabile, è critico non solo nelle zone del mondo prima citate, ma anche nella maggior parte dei paesi dell’Europa meridionale, Italia compresa. In aggiunta, gli studi del World Weather Attribution dimostrano come le ondate di calore registrate in Europa negli ultimi anni siano conseguenze del cambiamento climatico. Se ne desume quindi che questi fenomeni non siano probabilmente da considerarsi come un’eccezione, una singolarità, ma come eventi che sempre più influenzeranno le nostre società.

Non è solo un problema di tipo climatico.

Secondo un recente report di Istat, l’Italia risulta essere il terzo paese europeo per prelievi di acqua dolce per uso potabile pro capite, con 155 metri cubi annui. Questo alto valore è da attribuire in parte anche all’inefficienza della rete di distribuzione: nel 2022 il volume delle perdite idriche totali ammonta a 3,4 miliardi di metri cubi, ovvero il 42,4% dell’acqua immessa in rete. In altri termini, la quantità che viene persa nel sistema sarebbe sufficiente a soddisfare le esigenze idriche di altri 43,4 milioni di persone per un interno anno.

Istat cita anche le causa di un tale livello di perdite: oltre ai fattori fisiologici – non esiste un sistema a perdite zero – vengono menzionate le rotture nelle condotte, la vetustà degli impianti, errori di misura dei contatori e usi non autorizzati. Anche in questo caso però, il tasso di dispersione non è uguale in tutte le regioni, e traccia una divisione tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud. Quest’ultime si ritrovano tutte al di sopra del dato nazionale in termini di perdite, con i valori più alti in Basilicata (65,5%), Abruzzo (62,5%), Molise (53,9%), Sardegna (52,8%) e Sicilia (51,6%).

Gli acquedotti in Italia si sviluppano per circa 500mila chilometri. Di questi, il 60% è stato installato oltre 30 anni fa e il 25% supera i 50 anni. D’altro canto, il tasso nazionale di rinnovo è pari a 3,8 metri di condotte per ogni chilometro di rete: a questo ritmo sarebbero necessari 250 anni per sostituire l’intera rete (fonte FAI).

Dal problema alla soluzione: un passo tutt’altro che breve

Se la problematica sembra quindi facilmente ascrivibile all’inefficienza della rete, non altrettanto facile risulta essere la soluzione.Si stima infatti che l’investimento per adeguare e mantenere la rete idrica nazionale ammonti a circa 5 miliardi all’anno, risorse che attualmente non sono alla portata delle finanze italiane (fonte Utilitalia). Difatti, se in media i paesi europei spendono 82 euro per abitante l’anno in investimenti da parte dei gestori, il livello italiano si ferma a 38 (dati riferiti al 2021, fonte Utilitalia). Questi dati sottolineano da un lato l’importanza che rivestono gli investimenti nell’efficientamento della rete, dall’altro la difficoltà nel reperire le risorse per attuarli. Questo mismatch è indicatore del fatto che il problema legato alla dispersione idrica non sarà facilmente risolvibile nell’immediato futuro, nonostante le risorse messe in campo attraverso dei piani europei (React-Eu) e il PNRR, divise in 4 linee di intervento:

  • Infrastrutture idriche primarie per la sicurezza dell’approvvigionamento idrico;
    • Riduzione delle perdite nelle reti di distribuzione dell’acqua;
    • Investimenti nella resilienza dell’agrosistema irriguo per una migliore gestione delle risorse idriche;
    • Investimenti in fognatura e depurazione.

Gli eventi siccitosi e le conseguenti criticità legate alla fornitura di acqua alla popolazione, intensificatesi negli ultimi anni, dimostrano come ormai la situazione non possa più essere ricompresa nel termine “emergenza”, nel senso di circostanza imprevista, che porta tutt’al più a soluzioni temporanee e sicuramente non ideali per la popolazione. Ne sono un esempio le recenti misure di razionamento imposte in alcune regioni del Mezzogiorno piuttosto che la grave siccità che ha colpito il fiume Po nel 2022.  

Guardare all’esperienze di altre regioni del mondo può avere senso?

E’ opportuno chiedersi se non ci siano lezioni o moniti di cui tenere traccia dai Paesi che già hanno dovuto fronteggiare gravi carenze idriche. Ne sono esempio alcuni paesi del Sud del mondo, come quelli dell’Africa Sub-Sahariana. Quest’ultima è una delle zone in cui si registrano i più alti tassi di crescita della popolazione. Quest’aumento va di pari passo con quello della componente urbana, che negli ultimi trent’anni ha dato una forte spinta alla nascita di diverse metropoli, in cui oggigiorno convivono, a pochi chilometri di distanza, ambasciate ed insediamenti informali. Proprio quest’ultimi sono il simbolo di una pianificazione urbana e infrastrutturale che non ha mantenuto il passo della crescita demografica.

Esempio lampante di queste trasformazioni è Nairobi, capitale del Kenya. Ad oggi, la disponibilità idrica della città riesce a soddisfare solo circa il 64% della propria domanda. Nel 2009 sono quindi partiti i primi studi di fattibilità su un progetto per raccogliere più acqua dai fiumi che scorrono a nord della città, in modo da poter stare al passo con la domanda dei prossimi decenni. Tale progetto è un esempio di strategia di gestione delle risorse idriche basata sul lato dell’offerta, che appunto prevede lo sfruttamento di nuove fonti ancora vergini per far fronte al fabbisogno cittadino. Tuttavia, la letteratura è ormai critica nei confronti di questa visione, non sostenibile nel lungo periodo, specialmente in un contesto come il Kenya, dove l’esponenziale crescita della popolazione urbana e gli effetti del riscaldamento climatico stanno mettendo a dura prova le già scarse risorse idriche del Paese.

L’azienda responsabile della distribuzione idrica per la città, la Nairobi City Water and Sewerage Company (NCWSC) ha adottato un programma di razionamento, in modo da poter raggiungere i cittadini della capitale in modo più equo. Nonostante ciò, determinate parti della città e fasce della popolazione rimangono spesso non servite. La scarsità della risorsa fa sì che i singoli utenti competano per quest’ultima con investimenti propri: installazione di pompe elettriche, cisterne, fonti alternative quali il traforo di pozzi privati e la distribuzione tramite autocisterne, sempre private. L’adozione di questi sistemi dipende però dalla disponibilità economica dell’utenza. La distribuzione torna, quindi, ad essere diseguale, nonostante i tentativi delle autorità di servire ogni cittadino di Nairobi. Ne è testimone il fatto che nei quartieri più abbienti della città vi è un consumo che varia dai 200 ai 300 litri a persona, mentre negli insediamenti informali si aggira intorno ai 20 litri.

Fortunatamente in Italia le problematiche hanno al giorno d’oggi una magnitudo diversa da quella kenyota. Vi sono meno disparità economiche, una maggiore presenza delle istituzioni e una rete idrica già strutturata, solo per citare alcune differenze. Detto ciò, la situazione nella capitale kenyota è una chiara dimostrazione delle conseguenze che possono emergere nel caso in cui il fenomeno non venisse efficacemente fronteggiato dalle amministrazioni.

Ora, dato che le soluzioni di tipo infrastrutturale richiedono ingenti investimenti e tempi lunghi, è possibile immaginare che situazioni di criticità emergeranno anche in futuro. Com’è possibile quindi affrontare la problematica con soluzioni economiche con un impatto a breve termine?

Rimanendo nel Sud del mondo, è emblematico il caso di Città del Capo. Tra il 2015 e il 2018 la grave siccità ha più volte minacciato la città di 4,6 milioni di abitanti con il Day Zero, ovvero il taglio completo della fornitura idrica. Questo evento è stato evitato attraverso una costante campagna di informazione da parte delle autorità, mirante a ridurre i consumi da parte dei propri cittadini. Per quanto estremo, questo esempio ci dà due suggerimenti. Il primo: attraverso un approccio comunitario è possibile raggiungere in modo molto più efficace determinati obiettivi. Il secondo: la gestione del comportamento delle persone può avere effetti tangibili. Difatti, il caso rientra nelle misure che vengono definite in letteratura demand-driven, ovvero di gestione della risorsa idrica attraverso un suo consumo più efficiente. Delle politiche pubbliche cosiddette comportamentali, possono essere un prezioso strumento per questo fine. Questo approccio si basa sul capire quali sono i fattori che portano ad un consumo non efficiente e a creare delle politiche che agiscano su di essi.

In conclusione, è chiaro quindi che l’acqua non possa più essere trattata come una risorsa illimitata, sia dalla popolazione che dalle istituzioni. D’altro canto, nei periodi in cui le quantità disponibili si riducono drasticamente, come si osserva sempre più spesso, non è né sostenibile né efficiente una gestione emergenziale o peggio ancora lasciata ai singoli cittadini. Viste le difficoltà tecniche ed economiche sopra citate, vi è bisogno di un approccio che diventi quanto più possibile strategico, che non si limiti ad un singolo intervento “calato dall’alto” ma che coinvolga più attori e più soluzioni. In primis, deve però esserci la presa di coscienza del problema e della sua portata, nonché la volontà di affrontarlo e non di essere in balia di quest’ultimo.

Il Veneto dei flussi viaggia lungo la Pedemontana

[di Luca Garavaglia ]

Il 28 dicembre 2023 è stato inaugurata l’ultima tratta della Pedemontana Veneta, tra Malo e Montecchio Maggiore, e nella primavera del 2024 sarà completato l’allacciamento tra la nuova infrastruttura e l’autostrada A4, sempre a Montecchio. E’ finalmente giunta a compimento un’opera lungamente attesa, che ha portata strategica perché ridisegna completamente non solo la geografia dei flussi del Veneto, ma anche quella dell’intero sistema del Nord-Est.

Alla dimensione regionale, la nuova autostrada definisce finalmente condizioni di accessibilità dignitose a tutta l’area pedemontana, che rappresenta una componente di primaria importanza del sistema manifatturiero veneto. La riduzione dei tempi di connessione alle città e ai mercati comporterà conseguenze immediate (una riduzione dei tempi del pendolarismo e di quelli della logistica merci), ma anche effetti di medio-lungo periodo rendendo quei territori più appetibili per l’insediamento di nuove imprese e di nuovi residenti.

A una scala più ampia, la Pedemontana veneta costituisce un rafforzamento significativo dell’intera porzione italiana del corridoio V (qualche anno fa chiamato Corridoio Barcellona Kiev!), che taglia la pianura padana in direzione Ovest-Est: i mega-corridoi performanti infatti non sono solo assi autostradali o ferroviari, ma richiedono la presenza di “fasci di infrastrutture” parallele e interconnesse, che garantiscano piena permeabilità al territorio e diano la possibilità ai flussi di prendere direttrici alternative in caso di congestione o blocchi. In altre parole, non sono solo sistemi ad alta capacità, ma anche sistemi a alta ridondanza. La nuova autostrada consentirà al Veneto di inserirsi pienamente nel sistema dei flussi macro-regionale e trans-nazionale lungo il quale oggi si organizzano le filiere produttive allungate, i sistemi delle conoscenze, i mercati del lavoro.

Missione compiuta, quindi? In realtà per il completamento della griglia del corridoio mancano ancora alcuni interventi importanti: sia per quanto riguarda le connessioni nord-sud, a integrazione dei grandi assi per l’Austria, sia relativamente alla connessione tra Pedemontana e rete autostradale friulana. Perché la regola del “fascio di infrastrutture” non può riguardare solo tratte parziali dei corridoi, ma deve interessare la loro intera lunghezza. La Superstrada veneta collega le città pedemontane da Vicenza a Pordenone: la prosecuzione diretta verso il Friuli e il valico di Tarvisio – senza dunque la ridiscesa verso la A4 – completerebbe il corridoio.

Un altro tema di rilevanza strategica resta poi quello dell’alta velocità ferroviaria, che costituisce oggi il principale vettore di scambio e integrazione di flussi (non solo di persone, ma anche di conoscenze) tra le grandi aree metropolitane. La connessione rapida su ferro tra l’area centro-veneta e Bologna e Trieste è un requisito necessario per la saldatura del sistema economico della macro-regione del Nord, senza la quale le visioni del “nuovo triangolo dello sviluppo” tra Milano, Bologna e Venezia rischiano di restare solo retoriche.

La sfida digitale per stare meglio

[di Sergio Maset – L’articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2022 su Corriere del Veneto]

La digitalizzazione è certamente un processo rivoluzionario e richiede grandi investimenti materiali e culturali. Alcuni procedono per una spinta propria del mercato: altri richiedono invece una maggiore attenzione e definizione in relazione alla qualità della vita delle persone.

La transizione digitale così come la transizione energetica sono fatti sociali oltre che tecnologici e (anche) la dimensione sociale influenza la nostra capacità di governare piuttosto che essere governati da questi processi. Il fattore tempo è importante e determinerà quale ruolo avranno l’Italia e l’Europa nei prossimi decenni a livello globale. Per rendere sostenibili transizioni rapide bisogna però porsi nella prospettiva delle persone e comprendere come vengono vissute le trasformazioni. L’opportunità dal punto di vista di qualcuno potrebbe infatti essere vissuta come un rischio per il lavoro e le sicurezze di altri. Serve dunque una grande capacità di ascolto empatico dei lavoratori – autonomi, imprenditori, dipendenti che siano – e di valutazione degli scenari, per governare le possibili conflittualità sociali. Tutto ciò al fine di evitare che l’allungamento dei tempi giochi a sfavore della competitività di un paese democratico quale è il nostro.

È evidente che è in corso da diversi anni un enorme processo di alfabetizzazione digitale. Il punto è che questo è in larga parte condotto direttamente dagli operatori del mercato. Le smartTv, i dispositivi come Alexa, i social network, l’infomobilità, gli smartwatch, l’intrattenimento on line, tutti funzionano da strumenti “didattici” con cui l’alfabetizzazione digitale viene portata avanti. Lo stesso mercato, che si muove e crea l’ecosistema digitale, investe per renderci sempre più abili a vivere in un mondo in cui praticamente ogni ambito della nostra quotidianità viene interessato da processi di virtualizzazione e dematerializzazione. Da che Steve Jobs negli anni ’80 lanciò sul mercato il Macintosh con l’interfaccia grafica e il mouse gli investimenti sono stati focalizzati sulla semplificazione e appagamento dell’esperienza dell’utilizzatore. Le app commerciali oggi sono quanto di più semplice vi possa essere per lo svolgimento di operazioni complicate o macchinose. In Italia ognuno ha uno smartphone e l’esperienza con questi dispositivi è più facile, immediata e intuitiva oggi di quanto non lo fosse vent’anni fa quella con un cellulare che serviva solo per telefonare e scrivere sms.

Il punto su cui concentrarsi non è tanto quello di spiegare ai cittadini a muoversi in un mondo di applicazioni digitali, dato che queste sono congegnate proprio per essere utilizzate senza bisogno di altro aiuto. La questione è come fare in modo che con queste tecnologie le persone vivano meglio. Per questo serve portare nel dibattito politico gli elementi fondamentali della transizione digitale e di governo dell’ecosistema digitale. Come estenderlo rapidamente ai vari ambiti del sociale, dall’assistenza agli anziani all’inclusione dei disabili e alla telemedicina? Quali aspetti deve regolare lo Stato, ad esempio sul tema degli open data? Dove è opportuno o necessario che intervenga economicamente in via diretta? Come sfruttare l’ecosistema digitale per rendere più semplice la nostra vita oltre che più immediati gli acquisti e i consumi per il tempo libero?

Il Veneto, lontano dalla programmazione, affamato di innovazione

[di Sergio Maset]

Quando 25 anni fa quotidiani, riviste e pubblicazioni di settore mettevano in risalto il ruolo dell’economia distrettuale per l’impetuosa crescita socio-economica del Veneto e il suo emergere in posizione di primo piano nel panorama economico italiano, lettori più e meno addentro alla sfera economica “scoprivano” non solo l’esistenza, sul territorio veneto, di impianti produttivi appartenenti a grandi marchi leader a livello mondiale, ma anche che quei marchi erano di proprietà veneta: Tecnica (fondata a Montebelluna nel 1960), De’ Longhi (Treviso, 1902), Veneta Cucine (Biancade, 1967), Luxottica (Agordo, 1961) per citarne solo alcune. Ma molti di più sono infatti i brand noti già allora a livello internazionale.

La scoperta di questa dote di capacità produttiva e appeal a livello mondiale ha rappresentato forse, anche per mano di chi ne ha proprio visto l’utilità in questo senso, una chiave di volta nella narrazione del Veneto, da territorio rurale a territorio paradigma del modello distrettuale, fortemente orientato all’export. Si va dal racconto di Giorgio Lago alle provocazioni di Gian Antonio Stella, dribblando tra le polemiche televisive con Michele Santoro. Questo è stato sicuramente il portato maggiore di quella lettura sociologica del sistema produttivo veneto: sancire la discontinuità tra la rappresentazione di un Veneto da cui si fuggiva a quello di un Veneto di cui essere orgogliosi.

Ma quale altro ciclo si è aperto in quel momento? Negli anni in cui il Veneto ascoltava la narrazione del suo essere terra di marchi famosi, e non solo di lavoro, si completava l’apertura dei paesi dell’Europa orientale e la delocalizzazione diventava fenomeno diffuso, un vero e proprio modello di organizzazione produttiva. Se dunque la narrazione interviene a sancire il passato, allora, ciò di cui si parlerà oggi è la conclusione del ciclo di delocalizzazione produttiva quale strategia di vantaggio di costo. Oggi ciò che va in scena è il riconoscimento che altre strategie stanno pagando e che per queste contano davvero le competenze e la preparazione dei collaboratori e la capacità dell’impresa di governare la sua complessità. Dunque, innovazione e tecnologia, ma anche responsabilità e buon gusto.

Se negli anni ’90 la scoperta del Veneto come fucina di grandi marchi ha costituito un salto di coscienza collettiva rispetto ad un senso comune intriso di rievocazione nostalgica e dolorosa, viene da chiedersi cosa andare a ricercare nel rapporto tra imprese e società di oggi, quale scostamento dai luoghi comuni possa spingere ad un altro salto. Nella misura in cui le parole chiave stanno in tecnologia, innovazione, responsabilità e buon gusto, allora, probabilmente, bisogna ricercare la capacità di questo ecosistema di produrre cultura e sapere: riconoscendola e rinforzandola. Ad esempio, dimostrando che non è per nulla vero che i giovani veneti, per trovare un profilo professionale soddisfacente, devono andare all’estero; che non è vero che le aziende venete non fanno innovazione; che non è vero che la scuola non fornisce i profili utili alle aziende e che le risorse umane di eccellenza vanno solo nelle città.

In questo ragionamento l’area pedemontana costituisce un contesto emblematico: lontano dal corridoio urbano della A4, ha vissuto in pieno sia il ciclo dell’industrializzazione diffusa che la fase della delocalizzazione. Oggi si trova a vivere la sfida tecnologica senza avere la fascinazione delle città, in un momento in cui i grandi centri non sono più emblema del grigio ma diventano laboratorio di sostenibilità e vi si innestano imprese e lavoro. Si potrebbe dire che la locomotiva – usando una immagine cara alla retorica distrettuale – adesso non sta più esclusivamente nella pedemontana. I riflessi di queste tendenze si possono leggere nei dati di popolazione ed occupati dai quali sembra emergere un rallentamento di questa area pedemontana rispetto al Veneto nel suo complesso.

Non si tratta però di una nuova crisi, bensì il segno tangibile di trasformazioni che ovviamente sono già in corso. Si è chiuso il ciclo narrativo delle 3 C – capannone, chiesa, campo, che in qualche modo rappresentava l’idea della evoluzione dal mondo rurale. Il nuovo ciclo è da pensarsi intorno al concetto di relazione, tra persone, idee e mercati. La rappresentazione più iconografica della pedemontana è proprio la Superstrada. Intorno ai suoi futuri caselli – entro un raggio di 20 minuti – vivono già oggi oltre 900 mila abitanti e le imprese che vi hanno sede impiegano quasi 340 mila persone. Domani, i tempi di percorrenza con cui si spostano lungo il suo asse verranno dimezzati rispetto a quelli di oggi e questo darà vita ad una geometria nuova anche del mercato del lavoro. L’icona dunque per questa aree non è un luogo, ma un servizio, per collegare persone, interessi, formazione e lavoro. La consapevolezza di questo deve servire ad accompagnare responsabilmente l’evoluzione del territorio.

STIME ATTENDIBILI E DECISIONI SERIE SUL FUTURO DELLA PEDEMONTANA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso il 20 novembre 2016]

Nel ricorrente dibattito sul closing finanziario della Superstrada Pedemontana è recentemente entrato di prepotenza il tema delle stime di traffico. A quanto pare dati aggiornati direbbero che il traffico non sarà quello a suo tempo stimato, bensì enormemente inferiore. Da questo scenario discenderebbero due emergenze. Primo, la Regione Veneto dovrà sborsare un sacco di soldi compromettendo così il suo bilancio per decenni; secondo, poiché gli uomini della cassaforte dello Stato – la Cassa Depositi e Prestiti – non si fiderebbero della sostenibilità dell’opera, tanto meno dovrebbero investirci i privati, dunque niente soldi per finire i lavori. Insomma, due conclusioni catastrofiche per l’amministrazione delle risorse pubbliche.

Prima di ragionare su questi due rischi è meglio però provare fare un attimo di chiarezza. Punto primo: le stime sono una cosa, le decisioni sono un’altra. L’opera è partita per cui a questo punto se un problema c’è non è più nelle stime (di allora) ma nella decisione a suo tempo avvallata, rettificata, autorizzata a qualsiasi livello e tavolo. Quindi se errore ci fosse mai stato a suo tempo, la responsabilità risale la china della sequenza delle autorità amministrative. Della serie, non può essere accettato uno scaricabarile stato-regione.

Secondo punto: si negoziano le decisioni, non le stime. È solo in un mondo ottusamente tecnocratico ed elitario che si negoziano le stime per giustificare le scelte politiche. Le stime si valutano, si confrontano e si argomentano: le decisioni si negoziano. Della serie, se intendi negoziare sulle stime, allora non nominarle nemmeno e assumiti le responsabilità.

Terzo punto. Non c’è bisogno di essere dei volponi navigati per capire che quando ci sono in gioco cifre di miliardi di euro è irrilevante l’autorevolezza di chi fornisce le stime. Ovvero: buonsenso e mestiere ci insegnano che non posso mai basarmi su una sola fonte, ma dovrò metterla a confronto con altre. Ora, dopo sei mesi in cui si parla di stime, delle due l’una: o la questione dei dati è un pretesto oppure dobbiamo accettare che il nostro paese sia rimasto ai tempi dell’allegra commissione raccontata da Paolini, che da Roma saliva al Vajont per certificarne i lavori.

Come se ne viene fuori? Tre proposte. Primo, per quanto riguarda la questione delle stime, se mai davvero il problema fosse lì, meglio affrontarlo con la dovuta chiarezza: quattro docenti di pianificazione dei trasporti (non progettisti di strade, grazie), magari due italiani e due stranieri e un mese di tempo. Tanto di più non serve. Secondo, provare a fare un esercizio anche giornalistico: anziché concentrarsi esclusivamente sui rischi e su chi li corre, provare anche a chiedersi se e quali sarebbero le opportunità (e per chi) derivanti da una ridefinizione della partita attuale della compagine finanziaria della Pedemontana. Ultimo, ma non ultimo: facciamo, come paese, un bilancio serio sull’esperienza delle concessioni autostradali e delle privatizzazioni.

TERRITORIO, CAPANNONI E LE REGOLE CHE MANCANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Monitor di VeneziePost – 22 Marzo 2015]

La discussione sullo sviluppo insediativo, residenziale e produttivo nella provincia di Treviso ha ormai raggiunto i vent’anni. Nella seconda metà degli anni Novanta, i riflettori mediatici si sono accesi sul fenomeno Nordest e accanto alle evidenze macroeconomiche ha iniziato a prendere piede un dibattito, spesso sterile, sui costi di questo sviluppo. La provincia di Treviso – e così tutto l’arco pedemontano, da Verona a Pordenone – in cinquant’anni ha visto crescere la popolazione di circa 270 mila abitanti, aumentata del 44%; si è compiuta una conversione da un’economia ancora ampiamente agricola a una pienamente manifatturiera (oggi è ancor più corretto parlare di “manifatturiero terziarizzato”); inoltre, a dispetto delle profezie di declino industriale (pre-crisi e nel corso della crisi), Treviso si attesta ottava provincia esportatrice in Italia (dati Istat) e settima in Europa per vocazione industriale (secondo una recente ricerca della Fondazione Edison) in una graduatoria che vede ai primi tre posti, nell’ordine, Brescia, Bergamo e il territorio di Wolfsburg.

Che il paesaggio si sia fortemente trasformato è evidente. Generalmente le valutazioni di questa trasformazione sono negative senza però andare oltre a una lettura superficiale. Oggi possiamo hiederci dato il momento storico, in questa provincia poteva realisticamente andare diversamente? Se si va a vedere altri territori con analoga vocazione industriale, tassi di crescita economica e demografica simili, il panorama non sembra molto diverso. Detto in altri termini, sarebbe stato difficile non attendersi una proliferazione di zone industriali (oggi sono 1077 distribuite in 95 comuni), in un contesto di decentramento “in orizzontale” della storica impresa fordista, con una forte domanda di territorio da parte di un’imprenditoria di piccola dimensione (si ricorda soltanto che a Treviso, tra il 1971 e il ‘91, il numero delle unità locali operanti nell’industria più che raddoppia, passando da circa 10 mila a oltre 23 mila), con un assetto normativo quale quello italiano in cui i comuni hanno piena autonomia in materia urbanistica.

Ora, la realtà ci restituisce un quadro sociale ed economico più complesso di quello di 20 anni fa. Convivono diverse istanze che agiscono sul territorio – dalla attesa di (ri)messa a valore dei capannoni dismessi, alle richieste di ampliamento delle imprese, dalla domanda di occupazione a quella di riqualificazione del paesaggio, dalle richieste di nuove aree produttive alle istanze di salvaguardia del terreno agricolo. Una ricerca dell’Osservatorio Economico e Sociale della provincia di Treviso presentata in questi giorni, ha evidenziato che anche in un contesto ad alta frammentazione quale quello trevigiano, circa il 60% delle superfici produttive è concentrato in 28 piattaforme e che all’opposto, la percezione di disordine insediativo appare riconducibile al 15% della superficie produttiva, distribuito però in zone pulviscolari. I cluster produttivi che emergono dall’analisi sono in larga parte di natura sovracomunale, ovvero si sviluppano a cavallo di più comuni. Rispetto poi al tema del patrimonio immobiliare inutilizzato, un approfondimento su tre aree interessate da altrettante piattaforme ha rilevato che l’incidenza degli immobili produttivi inutilizzati varia, tra i casi, dal 10% sino al 20%. Un fenomeno dunque di assoluto rilievo.

Partendo da questi dati e lasciando da parte le retoriche del ripiegamento e della decrescita, si tratta evidentemente di riflettere se, a fronte di un quadro più articolato culturalmente, politicamente ed economicamente, sono ancora attuali gli strumenti normativi e regolativi e i livelli di attribuzioni delle competenze. Alcuni punti sono da subito individuabili e andrebbero affrontati. Bisogna domandarsi sino a che punto ha ancora senso una rigida classificazione per destinazioni d’uso in tutte quelle situazioni in cui non sono presenti attività o ad elevato rischio o ad intrinseca attrazione di grandi volumi di traffico. La compresenza di attività artigianali, terziarie ed industriali è possibile senza che da tale mescolanza si generino esternalità negative.

Nell’esperienza comune – inoltre – si vedono spesso piccoli fazzoletti di verde tra i capannoni. Derivano in molti casi dall’applicazione di standard, di cui si fatica a coglierne la razionalità. Gli spazi verdi richiedono una estensione adeguata per poter assumere e far percepire un reale valore. Il criterio convenzionale di distribuzione di parcelle di verde a standard nell’ambito di una pianificazione comunale non ha generato ampi corridoi verdi – che mancano nei contesti più urbanizzati – ma fazzoletti di degrado e abbandono. La responsabilità delle scelte in materia urbanistica resta incardinata in capo alle amministrazioni e agli uffici comunali e le recenti riforme sugli enti locali non hanno toccato l’impianto delle competenze. Far affidamento alla volontarietà delle singole amministrazioni di cooperare è irrealistico prima ancora che illusorio. Se si vuole oggi coordinare il nuovo sviluppo con la riqualificazione, la scala di pianificazione generale e di valutazione delle leve perequative e compensative in materia di insediamenti produttivi deve essere sovra comunale, quanto meno a livello di ambito distrettuale.

Un ulteriore elemento, strettamente connesso ai precedenti, riguarda la questione della semantica dei piani e dei regolamenti. I piani comunali sono costruiti solo in parte adottando denominazioni e classificazioni comuni. La composizione di un piano sovra comunale richiede, stanti le differenze semantiche, una attività di normalizzazione spesso non banale in ordine di tempo e di costi operativi. Analogamente avviene per i regolamenti edilizi, esito di sedimentazioni successive proprie per ciascun comune. Il risultato è che una attività di programmazione intercomunale, che consenta anche una valutazione integrata di oneri, perequazioni e compensazioni risulta forzatamente rallentata a prescindere dalla volontà politica delle amministrazioni. Si tratta di provare, fuori di retorica, ad essere davvero smart.

Un’ultima considerazione riguarda l’obiettivo generale a cui tendere. I processi di riqualificazione, rigenerazione e, più in generale, il perseguire un miglioramento della qualità complessiva del territorio, richiedono di riuscire ad utilizzare come leve non solo il ruolo regolatore delle amministrazioni ma anche e soprattutto l’interesse privato. Stante le caratteristiche del sistema economico provinciale, qualsiasi scenario si voglia disegnare deve comunque rispondere a un obiettivo di rafforzamento della capacità produttiva manifatturiera di generare valore aggiunto ed esportazioni, elementi questi che si riflettono sull’occupazione diretta, indiretta e indotta. Bisogna dunque capire come evolvono gli spazi fisici entro i quali si realizza la produzione, quali sono le forme e le dimensioni che chiede il sistema produttivo del 2020.