LA PEDEMONTANA E I CORRIDOI EUROPEI. Governare le scelte come beni pubblici e non come singole imprese

[di Sergio Maset – L’articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2024 su Corriere del Veneto]

Nell’infinito dibattitto tra federalismo e centralismo ha ripreso vigore la discussione sulla gestione delle infrastrutture autostradali. Ed è partita proprio dalla considerazione sui diversi prezzi applicati ai viaggiatori per percorrere corridoi simili su reti autostradali diversi – ad esempio la BreBeMi e la Superstrada Pedemontana Veneta (SPV) rispetto alla storica autostrada A4 (Torino – Trieste). Ora, siamo così sicuri che il problema stia nel federalismo regionale?

Facciamo un esempio: immaginiamo che in un comune ci sia un solo panificio, insufficiente a servire tutta la popolazione, con il risultato che il pane finisce sempre troppo presto. Il comune autorizza, per garantire a tutti un agevole accesso al pane, l’apertura di un secondo forno. Il nuovo fornaio, per rientrare rapidamente dei costi e abbattere il mutuo, decide di applicare un sovrapprezzo a tal punto elevato che in molti decidono di non comprarlo con il risultato che in molti restano ancora senza pane. Di chi è l’interesse a che vi sia pane accessibile per tutti?

Nel caso delle infrastrutture che possono costituire un’alternativa ad altre (il nuovo forno) il problema è molto simile. Pensiamo alle autostrade: l’automobilista che da Brescia deve andare a Milano percorrerà la BreBeMi più costosa ma vuota o la A4 trafficata ma meno costosa? Difficile trovare la risposta. Proviamo allora a cambiare la domanda: se la A4 è trafficata, lenta, incidentata, il problema è solo dell’automobilista e del camionista che la percorrono o è un problema collettivo? La rapidità e la sicurezza delle reti stradali sono o dovrebbero essere un interesse generale. Il ragionamento vale anche per altre reti di trasporto. Pensiamo ad esempio allo sviluppo dell’alta velocità rispetto all’aereo: se il costo dello sviluppo della rete ferroviaria ad alta velocità fosse ricompreso nel costo del biglietto del treno, probabilmente converrebbe viaggiare in first class su qualsiasi aereo anche per fare la tratta Venezia – Milano piuttosto che prendere una Freccia, tanto sarebbe il costo. Dunque, se l’obiettivo è quello di ridurre la congestione e l’inquinamento e aumentare la rapidità e la sicurezza, il costo dello sviluppo dell’alternativa deve essere sostenuto collettivamente, da entrambe le infrastrutture.

Non si tratta, pertanto, di un problema di regionalismo quanto di regolazione delle reti. Certamente un localismo spinto non aiuta, ma un centralismo senza dei criteri di gestione strategica delle reti comporterebbe gli stessi problemi. La SPV non nasce come idea progettuale nella recente stagione ma è presente nella programmazione strategica sin dagli anni ’60. Dunque, se si vuole sgravare rapidamente la A4, che sia in Veneto, Lombardia o Friuli-Venezia Giulia, parte del costo delle alternative (BreBeMi, SPV, ecc.) deve essere ammortizzato dall’intera rete. Lo stesso vale infatti per il tratto a Est della A4.

In questo momento sono ancora (!) in corso i lavori per la terza corsia da Venezia a Trieste: l’adeguamento serve solo per gestire l’emergenza di un tratto interessato troppe volte da incidenti. L’alternativa di sviluppo, spesso ipotizzata anche in Friuli Venezia Giulia, è quella di completare un asse alto, da Pordenone in direzione Tarvisio. Da Verona a Pordenone il corridoio autostradale con la SPV è completato e potrebbe (dovrebbe) dunque proseguire verso l’Austria. Si può fare, certo. Il problema non è federalismo sì o federalismo no, bensì governare le scelte strategiche sui corridoi infrastrutturali come beni pubblici e non come singole imprese.

Gestione sostenibile dell’acqua: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare

[di Luca Pavan]

I problemi legati alla scarsità delle risorse idriche sono rimasti a lungo al di fuori del dibattito pubblico del nostro Paese. La situazione sta tuttavia rapidamente cambiando negli ultimi anni. Se tematiche di questo tipo venivano relegate, almeno nell’immaginario collettivo, a latitudini del mondo decisamente più a sud, ora non sembra più esser così. Non solo le testate giornalistiche italiane, ma anche vari report di istituzioni internazionali, dipingono un quadro sempre più critico, legato soprattutto al riscaldamento climatico. Le Nazioni Unite mostrano che l’indicatore di water stress, ovvero il rapporto tra i prelievi di acqua rispetto alla quantità di risorsa rinnovabile, è critico non solo nelle zone del mondo prima citate, ma anche nella maggior parte dei paesi dell’Europa meridionale, Italia compresa. In aggiunta, gli studi del World Weather Attribution dimostrano come le ondate di calore registrate in Europa negli ultimi anni siano conseguenze del cambiamento climatico. Se ne desume quindi che questi fenomeni non siano probabilmente da considerarsi come un’eccezione, una singolarità, ma come eventi che sempre più influenzeranno le nostre società.

Non è solo un problema di tipo climatico.

Secondo un recente report di Istat, l’Italia risulta essere il terzo paese europeo per prelievi di acqua dolce per uso potabile pro capite, con 155 metri cubi annui. Questo alto valore è da attribuire in parte anche all’inefficienza della rete di distribuzione: nel 2022 il volume delle perdite idriche totali ammonta a 3,4 miliardi di metri cubi, ovvero il 42,4% dell’acqua immessa in rete. In altri termini, la quantità che viene persa nel sistema sarebbe sufficiente a soddisfare le esigenze idriche di altri 43,4 milioni di persone per un interno anno.

Istat cita anche le causa di un tale livello di perdite: oltre ai fattori fisiologici – non esiste un sistema a perdite zero – vengono menzionate le rotture nelle condotte, la vetustà degli impianti, errori di misura dei contatori e usi non autorizzati. Anche in questo caso però, il tasso di dispersione non è uguale in tutte le regioni, e traccia una divisione tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud. Quest’ultime si ritrovano tutte al di sopra del dato nazionale in termini di perdite, con i valori più alti in Basilicata (65,5%), Abruzzo (62,5%), Molise (53,9%), Sardegna (52,8%) e Sicilia (51,6%).

Gli acquedotti in Italia si sviluppano per circa 500mila chilometri. Di questi, il 60% è stato installato oltre 30 anni fa e il 25% supera i 50 anni. D’altro canto, il tasso nazionale di rinnovo è pari a 3,8 metri di condotte per ogni chilometro di rete: a questo ritmo sarebbero necessari 250 anni per sostituire l’intera rete (fonte FAI).

Dal problema alla soluzione: un passo tutt’altro che breve

Se la problematica sembra quindi facilmente ascrivibile all’inefficienza della rete, non altrettanto facile risulta essere la soluzione.Si stima infatti che l’investimento per adeguare e mantenere la rete idrica nazionale ammonti a circa 5 miliardi all’anno, risorse che attualmente non sono alla portata delle finanze italiane (fonte Utilitalia). Difatti, se in media i paesi europei spendono 82 euro per abitante l’anno in investimenti da parte dei gestori, il livello italiano si ferma a 38 (dati riferiti al 2021, fonte Utilitalia). Questi dati sottolineano da un lato l’importanza che rivestono gli investimenti nell’efficientamento della rete, dall’altro la difficoltà nel reperire le risorse per attuarli. Questo mismatch è indicatore del fatto che il problema legato alla dispersione idrica non sarà facilmente risolvibile nell’immediato futuro, nonostante le risorse messe in campo attraverso dei piani europei (React-Eu) e il PNRR, divise in 4 linee di intervento:

  • Infrastrutture idriche primarie per la sicurezza dell’approvvigionamento idrico;
    • Riduzione delle perdite nelle reti di distribuzione dell’acqua;
    • Investimenti nella resilienza dell’agrosistema irriguo per una migliore gestione delle risorse idriche;
    • Investimenti in fognatura e depurazione.

Gli eventi siccitosi e le conseguenti criticità legate alla fornitura di acqua alla popolazione, intensificatesi negli ultimi anni, dimostrano come ormai la situazione non possa più essere ricompresa nel termine “emergenza”, nel senso di circostanza imprevista, che porta tutt’al più a soluzioni temporanee e sicuramente non ideali per la popolazione. Ne sono un esempio le recenti misure di razionamento imposte in alcune regioni del Mezzogiorno piuttosto che la grave siccità che ha colpito il fiume Po nel 2022.  

Guardare all’esperienze di altre regioni del mondo può avere senso?

E’ opportuno chiedersi se non ci siano lezioni o moniti di cui tenere traccia dai Paesi che già hanno dovuto fronteggiare gravi carenze idriche. Ne sono esempio alcuni paesi del Sud del mondo, come quelli dell’Africa Sub-Sahariana. Quest’ultima è una delle zone in cui si registrano i più alti tassi di crescita della popolazione. Quest’aumento va di pari passo con quello della componente urbana, che negli ultimi trent’anni ha dato una forte spinta alla nascita di diverse metropoli, in cui oggigiorno convivono, a pochi chilometri di distanza, ambasciate ed insediamenti informali. Proprio quest’ultimi sono il simbolo di una pianificazione urbana e infrastrutturale che non ha mantenuto il passo della crescita demografica.

Esempio lampante di queste trasformazioni è Nairobi, capitale del Kenya. Ad oggi, la disponibilità idrica della città riesce a soddisfare solo circa il 64% della propria domanda. Nel 2009 sono quindi partiti i primi studi di fattibilità su un progetto per raccogliere più acqua dai fiumi che scorrono a nord della città, in modo da poter stare al passo con la domanda dei prossimi decenni. Tale progetto è un esempio di strategia di gestione delle risorse idriche basata sul lato dell’offerta, che appunto prevede lo sfruttamento di nuove fonti ancora vergini per far fronte al fabbisogno cittadino. Tuttavia, la letteratura è ormai critica nei confronti di questa visione, non sostenibile nel lungo periodo, specialmente in un contesto come il Kenya, dove l’esponenziale crescita della popolazione urbana e gli effetti del riscaldamento climatico stanno mettendo a dura prova le già scarse risorse idriche del Paese.

L’azienda responsabile della distribuzione idrica per la città, la Nairobi City Water and Sewerage Company (NCWSC) ha adottato un programma di razionamento, in modo da poter raggiungere i cittadini della capitale in modo più equo. Nonostante ciò, determinate parti della città e fasce della popolazione rimangono spesso non servite. La scarsità della risorsa fa sì che i singoli utenti competano per quest’ultima con investimenti propri: installazione di pompe elettriche, cisterne, fonti alternative quali il traforo di pozzi privati e la distribuzione tramite autocisterne, sempre private. L’adozione di questi sistemi dipende però dalla disponibilità economica dell’utenza. La distribuzione torna, quindi, ad essere diseguale, nonostante i tentativi delle autorità di servire ogni cittadino di Nairobi. Ne è testimone il fatto che nei quartieri più abbienti della città vi è un consumo che varia dai 200 ai 300 litri a persona, mentre negli insediamenti informali si aggira intorno ai 20 litri.

Fortunatamente in Italia le problematiche hanno al giorno d’oggi una magnitudo diversa da quella kenyota. Vi sono meno disparità economiche, una maggiore presenza delle istituzioni e una rete idrica già strutturata, solo per citare alcune differenze. Detto ciò, la situazione nella capitale kenyota è una chiara dimostrazione delle conseguenze che possono emergere nel caso in cui il fenomeno non venisse efficacemente fronteggiato dalle amministrazioni.

Ora, dato che le soluzioni di tipo infrastrutturale richiedono ingenti investimenti e tempi lunghi, è possibile immaginare che situazioni di criticità emergeranno anche in futuro. Com’è possibile quindi affrontare la problematica con soluzioni economiche con un impatto a breve termine?

Rimanendo nel Sud del mondo, è emblematico il caso di Città del Capo. Tra il 2015 e il 2018 la grave siccità ha più volte minacciato la città di 4,6 milioni di abitanti con il Day Zero, ovvero il taglio completo della fornitura idrica. Questo evento è stato evitato attraverso una costante campagna di informazione da parte delle autorità, mirante a ridurre i consumi da parte dei propri cittadini. Per quanto estremo, questo esempio ci dà due suggerimenti. Il primo: attraverso un approccio comunitario è possibile raggiungere in modo molto più efficace determinati obiettivi. Il secondo: la gestione del comportamento delle persone può avere effetti tangibili. Difatti, il caso rientra nelle misure che vengono definite in letteratura demand-driven, ovvero di gestione della risorsa idrica attraverso un suo consumo più efficiente. Delle politiche pubbliche cosiddette comportamentali, possono essere un prezioso strumento per questo fine. Questo approccio si basa sul capire quali sono i fattori che portano ad un consumo non efficiente e a creare delle politiche che agiscano su di essi.

In conclusione, è chiaro quindi che l’acqua non possa più essere trattata come una risorsa illimitata, sia dalla popolazione che dalle istituzioni. D’altro canto, nei periodi in cui le quantità disponibili si riducono drasticamente, come si osserva sempre più spesso, non è né sostenibile né efficiente una gestione emergenziale o peggio ancora lasciata ai singoli cittadini. Viste le difficoltà tecniche ed economiche sopra citate, vi è bisogno di un approccio che diventi quanto più possibile strategico, che non si limiti ad un singolo intervento “calato dall’alto” ma che coinvolga più attori e più soluzioni. In primis, deve però esserci la presa di coscienza del problema e della sua portata, nonché la volontà di affrontarlo e non di essere in balia di quest’ultimo.

Il bue e l’asinello nella mangiatoia dei Big Data: Google, Apple, Facebook & Co.

[di Sergio Maset]

La grande finanza, spesso vista come contrapposta all’”economia reale”, non gode certo delle immediate simpatie della maggioranza della popolazione. Può suscitare dunque non poco stupore l’affermazione di Jean Pierre Mustier, ad di Unicredit, il quale quest’estate ha accusato Facebook di “scarsa eticità” nell’uso dei dati degli utenti ed ha annunciato di aver “bloccato ogni interazione con Facebook” per attività di business quali le inserzioni pubblicitarie e le campagne di marketing. Il proverbiale “bue che dà del cornuto all’asino”, direbbe l’”uomo della strada”. Ma come? Il massimo dirigente della quinta banca europea per capitalizzazione che impartisce patenti di “eticità” a Facebook, la quale a sua volta, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, non gode certo delle simpatie popolari ma pare comunque più apprezzata di qualsiasi istituzione finanziaria?

E perché questo attacco? È forse un tentativo per associare in una stessa frase “grande finanza” ed “etica”? Forse si, ma anche no. In realtà, il confronto fra Unicredit e Facebook si inserisce in un contesto in cui le grandi piattaforme web – Apple, Facebook e Google – rivaleggiano con le istituzioni finanziarie tradizionali nel “core-business” di queste ultime. Banche ed istituti finanziari rilevano costantemente enormi quantità di informazioni sul comportamento dei clienti. Ma ancora maggiore è la capacità e potenza di monitoraggio dei comportamenti e delle preferenze che mettono in campo Google, Apple e Facebook. E’ inoltre sostanziale la differenza nel tipo di informazioni a cui possono accedere questi due gruppi: mentre i primi – le banche per intendersi -possono rilevare alcuni elementi del comportamento economico e finanziario dei clienti, i secondi possono mettere in relazione il comportamento nella molteplicità di ambiti in cui ciascuno di noi si muove. In qualche modo, possono statisticamente spiegare il “perché” di certi nostri comportamenti. Tutto un altro paio di maniche. Ora, con buona pace della nostra privacy, la compenetrazione fra i due mondi (social network e finanza) è ormai totale: Facebook, ad esempio, ha ammesso di aver effettuato, con successo, un forte pressing su diversi istituti finanziari affinché condividessero le comunicazioni fra banche e clienti effettuate via Messenger.

Da queste considerazioni si possono trarre, com’è ovvio, molteplici spunti di riflessione, sul piano politico e sociale. Primo aspetto. Stiamo già ampiamente assistendo alla contrapposizione di blocchi di potere nell’enorme mercato del controllo delle informazioni e, finalmente, sta crollando la patina di amichevole leggerezza che, con una attentissima e programmata liturgia, avevano costruito intorno a sé Google, Apple, Facebook & Co. E questo per effetto della messa in discussione operata, guarda caso, da altre élite così come nell’esempio della banca. La creazione di blocchi web-finanza, in cui la parte del leone la fanno le grandi piattaforme web, mentre banche ed istituti finanziari si vedono “costretti” ad allearsi ad una piattaforma o ad un’altra, rappresenta uno scenario affascinante e certo non peregrino. Si tratterebbe di uno scenario in cui, in assenza di un attore economico chiaramente egemone rispetto agli altri, si genererebbe una sorta di balance of power all’interno di un mondo multipolare. In cui, fintantoché un attore non prevarrà sugli altri, si assisterà a comportamenti dei singoli attori “minori” (fra virgolette, perché stiamo parlando di grandi corporation finanziarie) vòlti a “bilanciare” e contrarrestare gli eventuali tentativi “egemonici” degli altri blocchi.

La seconda considerazione è che non è ancora maturata una sufficiente consapevolezza della natura pubblica del ruolo giocato dalle reti digitali facendo emergere ampi vuoti di rappresentanza degli interessi sia generali sia specifici, di imprese e consumatori. L’accusa di “scarsa eticità” rivolta a Facebook, fa leva su argomentazioni appunto di tipo etico, che, ai giorni nostri, assumono un significato assolutamente politico. La “politicità” dell’accusa risiede nella ricerca di consenso presso un pubblico più vasto. E risiede anche nella richiesta, pur se in nuce ed interpretabile in modi diversissimi, di una diversa regolamentazione dell’arena digitale. Estremizzando, taluni basano le loro argomentazioni sulla sovranità della protezione dei dati sensibili dell’utente; altri sulla prevalenza dell’interesse del consumatore verso una migliore e più accattivante esperienza di acquisto. Ma se non si tratta (solamente) di una guerra commerciale fra potenze economiche per il controllo di fette di mercato, e se quindi emerge la necessità di argomentare la questione sul piano etico allora siamo di fronte ad uno scenario che richiede di comprendere come si articola la platea degli interessati e di comporre e rappresentarne l’interesse.

Insomma, bisogna essere consapevoli che le decisioni in materia di uso delle informazioni vanno ad incidere su aspetti fondamentali nella vita di ciascuno di noi, tanto quanto lo è, ad esempio, decidere la quantità di risorse da destinare alla sanità pubblica o all’istruzione. Dunque, parliamo di un’arena nella quale, per poter influire, bisogna anche raccogliere il consenso.

LA RETE IMMATERIALE TRA I PARTITI E LA BASE

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, il 2 febbraio 2019]

Il processo di smaterializzazione dell’informazione, delle comunicazioni, delle relazioni che, in una certa misura, divengono sempre più virtuali e meno fisiche, ha portato, tra le altre conseguenze, a una forte svalutazione – io direi proprio disconnessione – della funzione dei luoghi. Questo vale in particolare per la funzione politica, nel senso più ampio dell’agorà, ossia lo sviluppo del dibattito e del ragionamento intorno al bene comune.

In generale, le funzioni determinanti per la crescita di una persona e centrali per la società dovrebbero prevedere specifici luoghi deputati allo svolgimento della funzione. È così per la crescita individuale, sostenuta dalla famiglia; è così per l’istruzione seguita dalla scuola; è così, in qualche modo, anche per i riferimenti etico-valoriali con la chiesa; e così dovrebbe essere anche per la politica. Non si tratta di fare un’elegia della sede, né di farsi prendere da una sorta di critica immobiliarista. Il punto fondamentale è che il concetto di “appartenenza leggera”, proiettato sui luoghi, in realtà è l’altra faccia di una visione individualista del percorso politico, nel quale il singolo “leader” ricerca il contatto con la base nel momento elettorale, senza alcun percorso di costruzione di una leadership dialettica: questa richiede luoghi di elaborazione, entro i quali vi sia un senso e un convincimento di continuità, a prescindere dal singolo.

In qualche modo il luogo fisico afferma che l’organizzazione e il suo senso devono sopravvivere a prescindere da chi li stia guidando pro tempore. Gli attuali non luoghi della politica sono figli di una stagione fatta esclusivamente di leader, o aspiranti tali, che costruiscono il loro percorso immaginando già la transitorietà del loro ruolo a quel dato livello, e quindi disinvestono sul territorio, sbilanciandosi verso alleanze leggere con opportuni think tank esterni, questi sì strutturati e in sedi prestigiose. Le scuole di partito, come anche le scuole sindacali, nazionali e regionali invecchiano e si indeboliscono; i contenuti decisionali vengono esternalizzati; la scelta conseguente è un disinvestimento nella sede, il primo luogo di incontro con il territorio.

Rispetto a questo l’esperienza di Forza Italia è stata un’espressione anzitempo del concetto di disintermediazione tanto caro agli analisti politici oggi – mediato, o copiato, o tentato, negli ultimi anni da tanti, incluso lo stesso Renzi. Questo porta a una dicotomia comune nell’esperienza di chi ha frequentato sedi di partiti od organizzazioni: da un lato stanno le sedi – quando e dove ancora ci sono – simili a non-luoghi o stazioni degli autobus, piene di scatole polverose di materiali abbandonati, sporche e fredde; all’opposto gli eventi che si svolgono in sale congressi di alberghi, certo più confortevoli ma altrettanto non luoghi.

Ma accetteremmo un tale svuotamento di senso dei luoghi per le altre funzioni? Accetteremmo come normale una scuola dentro un cinema o in una palestra, o la giudicheremmo una situazione di transitoria difficoltà? Eppure, per quanto riguarda la funzione politica, evidentemente lo accettiamo di buon grado, dato che lo abbiamo accettato negli ultimi 30 anni. I non luoghi della politica sono la logica conseguenza del fatto di avere disintermediato il rapporto con la base. Il punto critico di questo processo è che non si può attivare la partecipazione esclusivamente attraverso strumenti disintermediati. La disintermediazione nella politica non è bidirezionale come tanti sembrano credere: funziona in una sola direzione.

I processi partecipativi non funzionano sulla rete: sulla rete possiamo contare i numeri, i follower, le visualizzazioni, ma non si può perdere di vista il fatto che le persone hanno bisogno di un contesto fisico che sia di stimolo alla loro diretta partecipazione e congruente con le loro capacità cognitive. Nel momento in cui io metto delle persone in una stanza a parlare sto dando loro la possibilità non solo di dire e sentire qualcosa, ma anche di avere riscontro alle loro osservazioni in modo trasversale. Questa possibilità si annacqua nella rete, troppo grande e caotica: si possono registrare le singole voci ma non costruire un percorso. E allora si ritorna a quel ragionamento iniziale: la rete in realtà funziona in maniera verticistica, solo i luoghi consentono una partecipazione trasversale.

Questo il problema di un Forza Italia che deve fare i conti con l’assenza di “uomini e luoghi di mezzo”. Questa sembra essere anche l’illusione originaria dell’approccio renziano. Forza Italia e il PD renziano sono l’espressione della teoria della disintermediazione, molto più del M5S che partiva e mantiene tuttora localmente, l’esperienza dei meetup anche se dovrà inevitabilmente fare i conti con la sua istituzionalizzazione. Diversa ancora è la situazione della Lega, che vive ora la tentazione di un leaderismo disintermediato ma che deve convincere alla prova del confronto con un solido radicamento nei luoghi.

Occorre dunque affiancare ad una rete molecolare immateriale una rete di luoghi, entro la quale si strutturano relazioni, interessi e specialità; il che non significa che le sedi devono diventare elemento di socialità, ma che il territorio ha un ruolo fondamentale; e quindi nel territorio c’è bisogno di una sede che sia dignitosa in maniera non fugace, non estemporanea. Una fulminante imitazione di Fausto Bertinotti fatta da Corrado Guzzanti qualche anno fa, poneva l’accento sull’irreperibilità, anche fisica, delle sedi di Rifondazione Comunista sul territorio, che non solo scompaiono ma divengono sempre più evanescenti: “trovaci compagno, se ci riesci”. In fin dei conti, tutti sappiamo che a fare la differenza in una famiglia sono gli affetti e i progetti comuni, ma non puoi crescere dei figli senza un tetto e un tavolo.

STIME ATTENDIBILI E DECISIONI SERIE SUL FUTURO DELLA PEDEMONTANA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso il 20 novembre 2016]

Nel ricorrente dibattito sul closing finanziario della Superstrada Pedemontana è recentemente entrato di prepotenza il tema delle stime di traffico. A quanto pare dati aggiornati direbbero che il traffico non sarà quello a suo tempo stimato, bensì enormemente inferiore. Da questo scenario discenderebbero due emergenze. Primo, la Regione Veneto dovrà sborsare un sacco di soldi compromettendo così il suo bilancio per decenni; secondo, poiché gli uomini della cassaforte dello Stato – la Cassa Depositi e Prestiti – non si fiderebbero della sostenibilità dell’opera, tanto meno dovrebbero investirci i privati, dunque niente soldi per finire i lavori. Insomma, due conclusioni catastrofiche per l’amministrazione delle risorse pubbliche.

Prima di ragionare su questi due rischi è meglio però provare fare un attimo di chiarezza. Punto primo: le stime sono una cosa, le decisioni sono un’altra. L’opera è partita per cui a questo punto se un problema c’è non è più nelle stime (di allora) ma nella decisione a suo tempo avvallata, rettificata, autorizzata a qualsiasi livello e tavolo. Quindi se errore ci fosse mai stato a suo tempo, la responsabilità risale la china della sequenza delle autorità amministrative. Della serie, non può essere accettato uno scaricabarile stato-regione.

Secondo punto: si negoziano le decisioni, non le stime. È solo in un mondo ottusamente tecnocratico ed elitario che si negoziano le stime per giustificare le scelte politiche. Le stime si valutano, si confrontano e si argomentano: le decisioni si negoziano. Della serie, se intendi negoziare sulle stime, allora non nominarle nemmeno e assumiti le responsabilità.

Terzo punto. Non c’è bisogno di essere dei volponi navigati per capire che quando ci sono in gioco cifre di miliardi di euro è irrilevante l’autorevolezza di chi fornisce le stime. Ovvero: buonsenso e mestiere ci insegnano che non posso mai basarmi su una sola fonte, ma dovrò metterla a confronto con altre. Ora, dopo sei mesi in cui si parla di stime, delle due l’una: o la questione dei dati è un pretesto oppure dobbiamo accettare che il nostro paese sia rimasto ai tempi dell’allegra commissione raccontata da Paolini, che da Roma saliva al Vajont per certificarne i lavori.

Come se ne viene fuori? Tre proposte. Primo, per quanto riguarda la questione delle stime, se mai davvero il problema fosse lì, meglio affrontarlo con la dovuta chiarezza: quattro docenti di pianificazione dei trasporti (non progettisti di strade, grazie), magari due italiani e due stranieri e un mese di tempo. Tanto di più non serve. Secondo, provare a fare un esercizio anche giornalistico: anziché concentrarsi esclusivamente sui rischi e su chi li corre, provare anche a chiedersi se e quali sarebbero le opportunità (e per chi) derivanti da una ridefinizione della partita attuale della compagine finanziaria della Pedemontana. Ultimo, ma non ultimo: facciamo, come paese, un bilancio serio sull’esperienza delle concessioni autostradali e delle privatizzazioni.

L’unione, le sua differenze, le narrazioni nazionaliste

PERCHÉ IL «NOI EUROPEO» FINISCE SULLE PORTAEREI

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Avvenire – 13 settembre 2016]

Guido Westerwelle, ministro degli Esteri tedesco dal 2009 al 2013, è prematuramente scomparso lo scorso 18 marzo. Interpellato sulle prospettive future dell’Europa al World Economic Forum di Davos del 2013 in un discorso lucido e brillante ha portato l’attenzione sulla necessità di realizzare che l’Europa «non è più al centro del mondo». All’interno di questo contesto, la posizione di Westerwelle prende le mosse da un assunto di base forte: l’Europa manca di materie prime e di energia che può sfruttare nel confronto globale e da sola l’India ha tre volte la popolazione di tutte le nazioni europee insieme. Pertanto, sempre secondo il ragionamento di Westerwelle, è necessario che ognuno ogni giorno in ogni Paese nell’Unione Europea si impegni per accrescere la propria competitività altrimenti «noi non sopravvivremo con il nostro stile di vita e perderemo la capacità di proteggere i nostri valori e la nostra libertà qui in Europa».

La ricetta che Westerwelle propone è data da tre ingredienti: disciplina fiscale (e progressiva riduzione del debito) per evitare la dipendenza dal sistema finanziario, solidarietà tra tutti i Paesi europei, crescita ottenuta tramite il rafforzamento della competitività e le riforme strutturali. Attraverso il rafforzamento prioritariamente del sistema educativo, formativo e della ricerca da un lato e gli investimenti sulle tecnologie energetiche dall’altro si potrà mantenere la competitività europea nello scenario internazionale. Il messaggio di Westerwelle teneva dunque insieme fine e mezzi: ma soprattutto non aveva timore di esprimere una volontà di affermazione del ‘noi europei’ rispetto al ‘loro, non europei’ in una consapevole valutazione di interesse e al contempo individuando nel controllo della capacità tecnologica per la produzione di risorse energetiche le armi su cui giocare la competizione internazionale. Riascoltare quel discorso in questi giorni fa un certo effetto. Viene da chiedersi se i fallimenti della politica estera europea sulle vicende nord africane e Medio Orientali così come le continue discussioni sulle tecnicalità finanziarie dell’euro non siano la causa ma l’esito di un difetto originario.

Il difetto originario. L’Europa unita nasceva per evitare che una nuova guerra potesse aver luogo tra le nazioni europee, in un mondo che era stato sino ad allora sostanzialmente Europacentrico e poi, nei decenni successivi, cristallizzato nei due blocchi: occidentale e sovietico. Negli anni della sua costruzione, memore delle guerre in casa propria e in un mondo ancora geograficamente ed economicamente ordinato, l’Europa si è negata intellettualmente e nella sua retorica la possibilità di definirsi per contrapposizione con ciò che l’Europa non era. Proseguendo su questa strada l’Unione si è inevitabilmente trovata impreparata a confrontarsi con il mondo post 1989-90, priva di una cornice di senso e di consenso per agire nel contesto internazionale globale. Passi significativi da allora, nonostante un contesto globale resosi sempre più fluido, non ne sono stati fatti. La debolezza e ambiguità nei confronti internazionali l’ha resa non solo facile preda al suo interno di bassi e scomposti pensieri autoritari, ma anche, come nel caso della Gran Bretagna, oggetto di messa in discussione formale circa la sua efficacia quale strumento per perseguire gli interessi nazionali nello scenario globale.

Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca. E non si può pensare di creare un interesse europeo aggregante in assenza di una concettualizzazione di cosa sia il «noi europeo» anche, se serve, in giustapposizione a cosa Europa non è. Gli obiettivi illuminati vanno bene ma come sempre accade in politica richiedono di sapersi confrontare anche con ciò che sta nell’ombra. Chi ha fatto in questi anni il lavoro sporco di parlare alla pancia degli europei da una prospettiva europea? Nessuno. L’Europa ha continuato a presentarsi ai suoi cittadini come quella che doveva portare al mercato unico del 1992: magnifiche sorti e progressive, un inno alla gioia per un mondo fatto di città della cultura. È inevitabile che se le istituzioni europee – da questo punto di vista un gigante dai piedi di argilla – tacciono, finiscano per riemergere narrazioni nazionaliste, peraltro velleitarie. In questo momento l’Europa ha paura dei suoi cittadini. È dunque utopistico pensare che un aiuto all’Unione Europea possa arrivare adesso dalle regole di interazione interna, siano esse fiscali, finanziarie o sociali.

Per quanto fastidioso possa suonare, l’Europa e le sue istituzioni devono raccontarsi, prima che il loro consenso salti del tutto per aria, un po’ meno illuminate e molto più interessate alla difesa delle nazioni europee. Ecco perché, di colpo, siamo passati dall’Inno alla gioia ai meeting dei leader della Ue sulle portaerei.

IL VENETO DELLE BANCHE, UNA SOCIETÀ SENZA ANTAGONISTI

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso il 11 giugno 2016]

Hanno ampia eco in questi giorni le prese di posizione delle associazioni di rappresentanza: il giudizio nei confronti delle vicende degli istituti bancari e, più in generale, il richiamo alla necessità, per la società veneta, di una responsabile consapevolezza dei propri limiti. Non serve fare un riassunto del dibattito.

Ebbene, attenendomi al richiamo, voglio mettere in luce un elemento di profonda e intrinseca debolezza nel mondo della rappresentanza politica e associativa. La debolezza risiede nella strutturale incapacità di generare posizioni antagoniste. Si potrebbe dire, con una lettura sociologica, che nella società veneta si teme una competizione aperta sui tavoli politici. Le crisi – adesso si discute di quelle bancarie – generano smarrimento, spaesamento: ma mai sono cavalcate da alcuna leadership emergente. Questo è il problema!

Non si vedono seconde guardie che, approfittando della situazione di debolezza, spodestano alcuno. Perché questo non succede? Nel mercato se io mi indebolisco, qualcuno prende il mio posto. È questa costante tensione che ci porta ad un continuo e salutare adattamento competitivo. Ad un politico navigato, una decina di anni fa, quando in Veneto si parlava di termovalorizzatori, avevo chiesto quale effetto avrebbe avuto su un sindaco chiamato a dover decidere per il proprio comune, il fatto che il suo partito si fosse espresso a favore di un utilizzo dei termovalorizzatori. La sua risposta è stata chiara e ferma: “Non puoi chiedere ad un sindaco di condannarsi alla morte politica. Il sindaco risponderà ai suoi referenti, che non sono il partito nazionale ma la sua rete di consenso locale. Se si esprimesse in linea con il partito senza costruire un consenso attorno, qualcuno prenderebbe il suo posto”.

Il problema dunque non è quello che è successo nel sistema bancario veneto, ma ciò che non è successo durante e all’apice delle crisi. Non si poteva pensare che chi stava a capo delle banche le riformasse dall’interno perché, anche ammesso che ci fosse l’interesse soggettivo a farlo, non avrebbe avuto il consenso per portarlo a termine. Nello stesso tempo, sarebbe chiedere troppo alla nostra intelligenza dimenticare che le tensioni con la Banca d’Italia proseguivano da anni. Dunque, in teoria, non è mancato né il tempo né lo spazio perché emergessero delle leadership alternative. Dare la colpa a Banca d’Italia per non aver adeguatamente vigilato serve a poco per il futuro. Se la classe è indisciplinata con la maestra, la soluzione non è certo mettere una bidella a controllare. Il fatto sostanziale è che mentre Banca d’Italia sollevava eccezioni, non è emersa alcuna linea antagonista che fondasse la sua legittimazione sulla domanda di discontinuità. Nessuno ha costruito una leadership alternativa.

Quali sono dunque gli anticorpi che un sistema, tutti i sistemi, basati sulla rappresentanza e sul consenso devono darsi? Esattamente la possibilità di poter generare al loro interno delle linee di pensiero antagoniste: un dissenso regolato le cui basi stesse delle regolazioni si fondano in una seria rendicontazione delle scelte e della gestione di chi è invece pro-tempore al governo. Senza appellarsi a meccanismi formali. Se non facciamo questo salto, che richiede di accettare che la concorrenza non è solo nel mercato ma anche nel governo dei beni collettivi, possiamo già prepararci alla prossima crisi.

TERRITORIO, CAPANNONI E LE REGOLE CHE MANCANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Monitor di VeneziePost – 22 Marzo 2015]

La discussione sullo sviluppo insediativo, residenziale e produttivo nella provincia di Treviso ha ormai raggiunto i vent’anni. Nella seconda metà degli anni Novanta, i riflettori mediatici si sono accesi sul fenomeno Nordest e accanto alle evidenze macroeconomiche ha iniziato a prendere piede un dibattito, spesso sterile, sui costi di questo sviluppo. La provincia di Treviso – e così tutto l’arco pedemontano, da Verona a Pordenone – in cinquant’anni ha visto crescere la popolazione di circa 270 mila abitanti, aumentata del 44%; si è compiuta una conversione da un’economia ancora ampiamente agricola a una pienamente manifatturiera (oggi è ancor più corretto parlare di “manifatturiero terziarizzato”); inoltre, a dispetto delle profezie di declino industriale (pre-crisi e nel corso della crisi), Treviso si attesta ottava provincia esportatrice in Italia (dati Istat) e settima in Europa per vocazione industriale (secondo una recente ricerca della Fondazione Edison) in una graduatoria che vede ai primi tre posti, nell’ordine, Brescia, Bergamo e il territorio di Wolfsburg.

Che il paesaggio si sia fortemente trasformato è evidente. Generalmente le valutazioni di questa trasformazione sono negative senza però andare oltre a una lettura superficiale. Oggi possiamo hiederci dato il momento storico, in questa provincia poteva realisticamente andare diversamente? Se si va a vedere altri territori con analoga vocazione industriale, tassi di crescita economica e demografica simili, il panorama non sembra molto diverso. Detto in altri termini, sarebbe stato difficile non attendersi una proliferazione di zone industriali (oggi sono 1077 distribuite in 95 comuni), in un contesto di decentramento “in orizzontale” della storica impresa fordista, con una forte domanda di territorio da parte di un’imprenditoria di piccola dimensione (si ricorda soltanto che a Treviso, tra il 1971 e il ‘91, il numero delle unità locali operanti nell’industria più che raddoppia, passando da circa 10 mila a oltre 23 mila), con un assetto normativo quale quello italiano in cui i comuni hanno piena autonomia in materia urbanistica.

Ora, la realtà ci restituisce un quadro sociale ed economico più complesso di quello di 20 anni fa. Convivono diverse istanze che agiscono sul territorio – dalla attesa di (ri)messa a valore dei capannoni dismessi, alle richieste di ampliamento delle imprese, dalla domanda di occupazione a quella di riqualificazione del paesaggio, dalle richieste di nuove aree produttive alle istanze di salvaguardia del terreno agricolo. Una ricerca dell’Osservatorio Economico e Sociale della provincia di Treviso presentata in questi giorni, ha evidenziato che anche in un contesto ad alta frammentazione quale quello trevigiano, circa il 60% delle superfici produttive è concentrato in 28 piattaforme e che all’opposto, la percezione di disordine insediativo appare riconducibile al 15% della superficie produttiva, distribuito però in zone pulviscolari. I cluster produttivi che emergono dall’analisi sono in larga parte di natura sovracomunale, ovvero si sviluppano a cavallo di più comuni. Rispetto poi al tema del patrimonio immobiliare inutilizzato, un approfondimento su tre aree interessate da altrettante piattaforme ha rilevato che l’incidenza degli immobili produttivi inutilizzati varia, tra i casi, dal 10% sino al 20%. Un fenomeno dunque di assoluto rilievo.

Partendo da questi dati e lasciando da parte le retoriche del ripiegamento e della decrescita, si tratta evidentemente di riflettere se, a fronte di un quadro più articolato culturalmente, politicamente ed economicamente, sono ancora attuali gli strumenti normativi e regolativi e i livelli di attribuzioni delle competenze. Alcuni punti sono da subito individuabili e andrebbero affrontati. Bisogna domandarsi sino a che punto ha ancora senso una rigida classificazione per destinazioni d’uso in tutte quelle situazioni in cui non sono presenti attività o ad elevato rischio o ad intrinseca attrazione di grandi volumi di traffico. La compresenza di attività artigianali, terziarie ed industriali è possibile senza che da tale mescolanza si generino esternalità negative.

Nell’esperienza comune – inoltre – si vedono spesso piccoli fazzoletti di verde tra i capannoni. Derivano in molti casi dall’applicazione di standard, di cui si fatica a coglierne la razionalità. Gli spazi verdi richiedono una estensione adeguata per poter assumere e far percepire un reale valore. Il criterio convenzionale di distribuzione di parcelle di verde a standard nell’ambito di una pianificazione comunale non ha generato ampi corridoi verdi – che mancano nei contesti più urbanizzati – ma fazzoletti di degrado e abbandono. La responsabilità delle scelte in materia urbanistica resta incardinata in capo alle amministrazioni e agli uffici comunali e le recenti riforme sugli enti locali non hanno toccato l’impianto delle competenze. Far affidamento alla volontarietà delle singole amministrazioni di cooperare è irrealistico prima ancora che illusorio. Se si vuole oggi coordinare il nuovo sviluppo con la riqualificazione, la scala di pianificazione generale e di valutazione delle leve perequative e compensative in materia di insediamenti produttivi deve essere sovra comunale, quanto meno a livello di ambito distrettuale.

Un ulteriore elemento, strettamente connesso ai precedenti, riguarda la questione della semantica dei piani e dei regolamenti. I piani comunali sono costruiti solo in parte adottando denominazioni e classificazioni comuni. La composizione di un piano sovra comunale richiede, stanti le differenze semantiche, una attività di normalizzazione spesso non banale in ordine di tempo e di costi operativi. Analogamente avviene per i regolamenti edilizi, esito di sedimentazioni successive proprie per ciascun comune. Il risultato è che una attività di programmazione intercomunale, che consenta anche una valutazione integrata di oneri, perequazioni e compensazioni risulta forzatamente rallentata a prescindere dalla volontà politica delle amministrazioni. Si tratta di provare, fuori di retorica, ad essere davvero smart.

Un’ultima considerazione riguarda l’obiettivo generale a cui tendere. I processi di riqualificazione, rigenerazione e, più in generale, il perseguire un miglioramento della qualità complessiva del territorio, richiedono di riuscire ad utilizzare come leve non solo il ruolo regolatore delle amministrazioni ma anche e soprattutto l’interesse privato. Stante le caratteristiche del sistema economico provinciale, qualsiasi scenario si voglia disegnare deve comunque rispondere a un obiettivo di rafforzamento della capacità produttiva manifatturiera di generare valore aggiunto ed esportazioni, elementi questi che si riflettono sull’occupazione diretta, indiretta e indotta. Bisogna dunque capire come evolvono gli spazi fisici entro i quali si realizza la produzione, quali sono le forme e le dimensioni che chiede il sistema produttivo del 2020.

VENEZIA E LA SFIDA DEL TURISMO GUARDANDO AL MODELLO LAS VEGAS

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Monitor di VeneziePost – 11 Gennaio 2015]

C’è qualcuno che conosce la contea di Clark negli Stati Uniti? Probabilmente (quasi) nessuno. Eppure il presidente della contea di Clark, l’equivalente territoriale di una nostra provincia, è anche il presidente di uno dei più interessanti casi a livello mondiale di Organizzazione di Gestione della destinazione: il Las Vegas Convention and Visitors Authority.

Il termine Organizzazione di Gestione della destinazione (ODG) dovrebbe suonare familiare, visto che è stata introdotta dalla legge regionale del Veneto n° 11 del 2013. Si tratta di organizzazioni responsabili del management e del marketing turistico, i cui obiettivi sono la governance turistica delle destinazioni, la gestione dell’informazione turistica, la qualificazione dei servizi e dei prodotti, la creazione e lo sviluppo di sinergie e forme di cooperazione tra soggetti pubblici e privati nel governo della destinazione e dei prodotti turistici.

Ora, ci sono almeno tre buone ragioni per guardare all’esperienza del LVCVA e tutte e tre rimandano ad una insuperabile capacità degli americani di parlare chiaro e comunicare efficacemente.

La prima riguarda la sua missione. L’authority è il soggetto che ha il compito di attrarre visitatori promuovendo Las Vegas come “la più desiderabile meta per il tempo libero e il turismo d’affari”. E continua a farlo ininterrottamente dal 1955. Negli anni 50 Las Vegas era già una destinazione affermata scelta da milioni di visitatori per il tempo libero. Tuttavia questo tipo di turismo presentava un andamento ciclico, con un calo di visitatori nei weekend, durante l’estate e le feste natalizie. Venne dunque identificato un nuovo mercato per i periodi di bassa stagione, l’attività congressuale. Lo stato del Nevada autorizzò dunque la contea di Clark a finanziare con l’introduzione di una imposta di soggiorno la costruzione del Las Vegas Convention Center e l’avvio di un programma di marketing della destinazione. Adesso Las Vegas ospita 22 mila congressi ogni anno con più di 5 milioni di partecipanti. Il volume complessivo è di oltre 40 milioni di turisti con quasi 50 milioni di stanze-notte occupate (in provincia di Venezia, nel 2013, gli arrivi sono stati circa 8,2 milioni e le presenze nell’ordine dei 34 milioni). Le attività di marketing dell’LVCVA interessano gli hotel e motel del Sud Nevada: oltre alla città di Las Vegas, anche Laughlin, Boulder City, Jean, Primm, Henderson, North Las Vegas and Mesquite.

Il secondo aspetto che vale la pena segnalare è il modello di Governance adottato. L’economia del sud del Nevada è fortemente dipendente del turismo: hotel, casinò e industria congressuale. Questi settori occupano più di un quarto della forza lavoro complessiva. La sostenibilità dell’economia della contea di Clark dipende dal volume di visitatori della regione. Per quanto possa sembrare strano il LVCVA è una agenzia governativa, istituita per legge nazionale. L’agenzia è governata da un consiglio di amministrazione autonomo che ha come obiettivo definire le politiche per attrarre un sempre maggior numero di visitatori. Il consiglio di Amministrazione è costituito da 14 membri: 2 della contea, 2 della città di Las Vegas, un membro ciascuno per le città di North Las Vegas, Henderson, Mesquite and Boulder City. Il settore privato esprime sei membri, nominati dalla camera di commercio di Las Vegas e dall’associazione albergatori del Nevada.

Il terzo elemento degno di nota riguarda il livello di rendicontazione delle decisioni assunte e dei risultati conseguiti, con una estrema chiarezza sui ricavi complessivi della tassa di soggiorno, le altre fonti, sulle spese e gli investimenti. A questo si accompagna una rigorosa attività di informazione in merito al profilo dei viaggiatori, provenienza, permanenza, quanti arrivano in aereo e quanti in auto, livello di spesa, tipo di spesa, modalità di prenotazione ecc.

Si potrebbe dire sbrigativamente che l’Italia non sono gli Stati Uniti e Venezia non è Las Vegas. E dunque? C’è ad esempio molto da imparare sulla capacità di sintetizzare in due righe la mission di una agenzia o di una organizzazione di gestione della destinazione. Ora, per effetto della legge regionale, verranno istituite le organizzazioni di gestione delle destinazione. Ma saranno altrettanto in grado di spiegare in venti parole perché esistono e quale è il loro obiettivo? Ancora, dovremmo guardare con attenzione al fatto che è possibile avere una agenzia governativa, costituita secondo principi di partenariato pubblico privato, in cui entrambe le componenti siedono nel consiglio di amministrazione. E’ inoltre evidente che nessuno mette in discussione la primazia di Las Vegas, ma vi sono rappresentate anche altre città con 4 posti in consiglio e la contea con 2 posti.

Nel corso del 2014 LVCA ha raccolto 285 milioni di dollari di cui: circa 220 milioni dalle tasse di soggiorno, 57 milioni sono ricavi dall’utilizzo delle sue strutture, 3,8 milioni da altri servizi forniti per gli eventi. Nel 2014 le uscite del LVCA ammontano a circa 211 milioni di dollari di cui 28 in marketing, 92 milioni in pubblicità, circa 45 milioni per il Global Business Distric, il rinnovato convention center di Las Vegas. Ora, sfido chiunque a visitare il sito dell’LVCVA e poi a guardarsi i bilanci dei comuni e di una qualsiasi provincia e provare a trovare con altrettanta facilità le stesse informazioni.

Lungi dal voler mutuare in toto il modello Las Vegas nel caso Veneto, restano però alcuni punti su cui riflettere seriamente. L’obiettivo delle organizzazioni di Gestione della destinazione dovrà essere espresso in termini chiari e – ça va sans dire – dovrà essere valutabile, anno per anno il raggiungimento dello stesso. Questo vale per la città di Venezia: si vuole che i visitatori, gli arrivi, le presenze aumentino, che calino (?), che si redistribuiscano nell’arco dall’anno o cos’altro. Ma vale anche per tutte le altre località della riviera veneziana.

Che fare dunque? Certamente non ha senso per Venezia preoccuparsi del fatto che a Jesolo si sia costituita l’associazione Imprese Turistiche Jesolo Venice. E’ certamente vero che una parte importante di visitatori di Venezia soggiorna in strutture ricettive all’esterno del comune di Venezia e che poi fruisce della città. Ma, da questo punto di vista è difficile dare torto tanto agli operatori che ai turisti i quali, magari, dormono a Mogliano Veneto e prendono l’autobus dell’Actv per arrivare a Piazzale Roma. In realtà stupisce di più che solo ora una località come Jesolo abbia realizzato che la sua grande vicina costituisce una leva di marketing da spendere anche per promuovere se stessa.

La questione sostanziale è che il terminal croceristico, l’aeroporto, Venezia stessa, i comuni di cintura, le città costiere, Marghera sono tutti potenziali partner e che al contempo una gestione scoordinata dei flussi di visitatori tra questi sistemi comporta dei costi elevati, per i residenti, per le mancate opportunità di business e di efficacia nei servizi forniti al turista. Il metter ordine al tema del governo dei flussi turistici nel sistema veneziano costituisce una sfida più che nobile per l’amministrazione metropolitana. E se Venezia deve (giustamente) farsi pagare la sua manutenzione, dovrà per forza pensare ad introiettare nel prezzo dei mezzi di trasporto per raggiungerla – siano essi via mare o via terra – la sua imposta di accesso. Ma in una prospettiva diversa rispetto ad oggi, in cui quando il turista è arrivato a piazzale Roma o alla stazione di Santa Lucia il gioco è già bell’e fatto e arrivare a Venezia costa poco più che un caffè. Metti mai che sia anche una buona occasione per arrivare ad un sistema di bigliettazione integrato del trasporto pubblico locale.

OPPORTUNITÀ E RESISTENZE NEI NUOVI CONTESTI ECONOMICI E PRODUTTIVI

[di Sergio Maset

gennaio 2014,  in Quaderni della Fondazione Francesco Fabbri, 2, 2014, pp.24-28, Mimesis, Milano]

E’ necessario che una riflessione complessiva sulla crisi si ponga criticamente l’obiettivo di mettere in discussione il modo stesso con cui ci si riferisce diffusamente a questo concetto e provi a porre le condizioni per la sua definitiva sostituzione con quello di trasformazione. Non si tratta, è evidente, di realizzare un esercizio linguistico, ma di superare definitivamente una serie di luoghi comuni che hanno accompagno in questi anni la trattazione sulla crisi. Impropriamente si usa dire “effetti della crisi”, riferendosi a disoccupazione, calo del Pil, diminuzione della domanda interna, contrazione del mercato immobiliare e via discorrendo. Perché impropriamente? Perché la crisi non è una causa, bensì un effetto. E’ l’effetto di una serie di trasformazioni in atto da parecchio tempo, ben prima dell’inizio convenzionale della crisi finanziaria internazionale, il 15 settembre 2008, giorno del fallimento della banca americana Lehman Brothers. E’ indubbio che in questi cinque anni, la “crisi” ha rappresentato un utile contenitore fenomenologico all’interno del quale sono stati riordinati tutta una serie di incompiute, colli di bottiglia, debolezze strutturali dell’Italia (e non solo dell’Italia). Consideriamo queste incompiute come gli elementi che hanno condizionato la possibilità per il paese di “cavalcare la tigre” di una serie di mega fenomeni.

Solo per ricordare alcuni mega trend che hanno impattato su tutte le economie della vecchia Europa basta pensare a quanto è avvenuto con la modifica dell’ordine geopolitico mondiale dopo il crollo del muro di Berlino. E’ curioso come ci si scordi rapidamente anche del passato più prossimo: la delocalizzazione verso i paesi a più basso costo del lavoro e minor pressione fiscale era incominciata ben prima del 2008. La Cina e il Sud Est asiatico sono poi da parecchi anni paesi ad altissimo tasso di sviluppo economico, paesi di sbocco commerciale ma soprattutto per la produzione a basso costo del lavoro e che hanno spazzato via la convenienza a produrre tutta una serie di prodotti (finali o intermedi che fossero) in Italia e nel resto della vecchia Europa. Basti a rinfrescare la memoria, citare quanto avvenuto negli ultimi due decenni nel comparto tessile.

Un altro mega fenomeno che prosegue da anni è connesso alla diffusione massiva dell’accesso a internet, che di fatto ha modificato (e continuerà a modificare) il commercio e i servizi. Quante “crisi” ci sono state negli anni, ad esempio, nelle agenzie di viaggi, nelle librerie, nei negozi di dischi? Sono state drammatiche, ma sono avvenute. Ancor prima l’office automation aveva spazzato via anche settori ad elevata professionalità. Il riferimento non è alle dattilografe (viene da ridere a usare adesso quel termine, ma c’erano ed erano tante) ma ad alte professioni apparentemente al riparo da ogni possibile shock. Si pensi che ancora agli inizi degli anni ’90 tutte le presentazioni aziendali (quelle che adesso si confezionano con programmi come power point) venivano costruite da tecnici super specializzati che le disegnavano praticamente a mano e le montavano come fossero dei film. Quanto deve essere stato drammatico scoprire che da un giorno all’altro il loro mestiere non valeva più nulla. Probabilmente proprio chi aveva fatto dell’eccellenza manuale il suo punto di forza si è trovato molto peggio di chi, magari più approssimativo nella composizione manuale ma più abile nell’ideazione concettuale, ha trovato nei software una opportunità per produrre più rapidamente e con costi inferiori. Un esempio diametralmente opposto, ma non meno radicale, riguarda ciò che è avvenuto con la diffusione dei sistemi di esazione automatica ai caselli autostradali: una intera categoria di lavoratori ha smesso di esistere.

Le trasformazioni avvengono di continuo e sarebbe interessante riflettere sul perché alcune accadono senza che nessuno se ne preoccupi più di tanto mentre altre vengono rappresentate efficacemente come una sorta di fine del mondo. Mentre per anni ci si è interrogati sull’opportunità o meno di concedere orari di apertura prolungati alle grandi strutture di vendita, si sono lanciati strali contro i centri commerciali e sono state versate lacrime sulla scomparsa delle piccole botteghe alimentari, interi settori sono stati molto sommessamente spazzati via dal commercio online.

Ancora una volta, tuttavia, per rispondere alla sfida, occorre guardare alle trasformazioni indotte e non limitarsi al conteggio delle perdite subite. Questo perché le trasformazioni modificano equilibri, rapporti forza e, per quanto possa suonare retorico, creano opportunità. Nel mercato librario il commercio online sta spingendo le librerie a diventare qualcos’altro: luoghi di aggregazione con reading e concerti, spazi ibridi in cui tra gli scaffali compaiono divani e caffè. Certamente in questo caso a intraprendere la trasformazione sono stati pochi soggetti con maggiore capacità di inventiva e, necessariamente, economica.

Nel settore dell’elettronica e della vendita degli elettrodomestici i piccolo negozi sopravvissuti al confronto competitivo con le grandi catene e al commercio elettronico si stanno caratterizzando come punti vendita in cui comprare, assieme al prodotto, assistenza per manutenzioni, riparazioni, consigli, più difficilmente reperibili nei grandi store. Nel settore alimentare, le grandi catene stanno investendo sulle medie strutture in cui sono possibili margini maggiori rispetto all’ipermercato da volantino sottocosto e in cui, assieme al prodotto, viene venduta sempre più accoglienza e attenzione per il cliente da parte di addetti formati e addestrati a questo preciso scopo e molti di questi sono giovani e giovanissimi.

Tra i mega fenomeni non si può non considerare la costituzione del mercato unico europeo e l’istituzione dei tassi fissi (e poi l’euro), che come effetto immediato hanno bloccato la possibilità di agire sulla leva dei cambi per modificare la convenienza ad acquistare dall’Italia. Questo ha sicuramente tolto ad alcuni tipi di produzione la possibilità di competere globalmente agendo sulla leva del cambio ma, almeno per chi ha saputo coglierne l’opportunità, ha migliorato tutto i settori connessi all’importazione. Inoltre l’Unione Europea, con tutto il suo sistema di regole, ha anche creato nuovi prodotti, e nuovi mercati per servizi prima inesistenti. Sono ormai quasi dieci anni che nei documenti europei si fa riferimento ai lead market, ambiti di prodotto, ricerca e servizi che avrebbero avuto negli anni successivi un forte sviluppo. Tra questi tutte le tecnologie per l’efficientamento energetico e la riduzione della produzione di gas serra. Tempi, modi e standard sono stati concertati a livello europeo ed è stata la definizione di regole ad aver creato quell’enorme mercato della green economy. Dagli ingegneri, ai produttori di caldaie, pannelli isolanti, serramenti fino agli idraulici e installatori, si provi a chiedere a questi se le politiche europee sono state da questo punto di vista un bene o un male.

Come sempre accade ogni politica genera clientes. Basti pensare, ancora, a che cosa ha rappresento per il mercato dei servizi l’introduzione di norme sulla verifica e certificazione della sicurezza nei luoghi lavoro. Nelle fasi iniziali di applicazione di queste nuove norme si possono ritrovare almeno tre letture: un segno concreto di maturazione e di civiltà di una società, un aggravio delle procedure e dei costi a cui sono soggette le imprese, un grande nuovo mercato per tutti quanti vendono servizi e prodotti per la sicurezza (segnaletica, estintori, verifiche, ispezioni, formazione, aggiornamento, ….).

Le trasformazioni, anche drammatiche, avvengono dunque di continuo, molto più di quanto comunemente si pensi. L’idea di poter individuare un prima e un dopo e dunque la convinzione che la società sia sostanzialmente statica e che solo in pochi definiti momenti vede dei punti di cesura, è sostanzialmente errata. Non perché non vi siano punti di cesura ma perché, al contrario, ve ne sono tantissimi e di continuo. Provare a resistervi è come cercare di costruire tante piccole dighe di fango e detriti su un torrente in piena: ad un certo punto inevitabilmente cedono e la corrente va ad impattare sugli argini con ancora più forza e pressione. Può forse sembrare romantica come immagine, ma in questo momento, per fronteggiare una corrente impetuosa non ci si può permettere salti e sbarramenti solidi: servono uomini capaci su barche più robuste. Per quanto riguarda il commercio estero, dopo il crollo delle esportazioni conosciuto tra 2008 e 2009 (-21,5%), nel triennio successivo il Veneto ha visto il proprio export crescere a un ritmo del 9% annuo che ha riportato l’export regionale al livello pre-crisi, ed anzi a sopravanzarlo del 2% (50 miliardi di euro nel 2008, 51 miliardi nel 2012)[1].

È utile tener presente che nel corso degli ultimi cinque anni sono occorse due diverse fasi recessive, di cui una tuttora in atto, caratterizzate però da differenti dinamiche. Nella prima ondata recessiva, coincidente grosso modo con il periodo 2008-2009 (shock finanziario internazionale), il dato più evidente è la contemporanea contrazione della domanda estera (un calo particolarmente repentino), dei consumi finali e degli investimenti. Successivamente, nel corso del 2010, la variazione della domanda interna è tornata di segno positivo e il calo della domanda esterna si è fatto più contenuto. Nel 2011 si è però verificata un’inversione radicale di segno, con una ripresa delle esportazioni incapace tuttavia di compensare un calo consistente della domanda interna (consumi finali, investimenti e scorte) e della spesa pubblica che ha determinato un ulteriore brusca diminuzione del Pil. A partire da metà 2011 il numero di disoccupati ha iniziato una fase di intensa crescita che sembra rallentare solo nel corso del 2013, mentre il numero di occupati ha sostanzialmente tenuto sino a metà 2012 per poi calare bruscamente.

Che cosa c’è dunque di così particolare in questa fase che ha portato a parlare di grande crisi? Essenzialmente il fatto che vi è stato da prima uno shock finanziario globale e successivamente, senza soluzione di continuità, una crisi (questa nel vero senso del termine) di fiducia internazionale nell’Italia connessa alla capacità del paese di far fronte al debito pubblico con il conseguente aumento del tasso di interesse sui titoli di stato. Questa seconda fase, a cui si è cercato di porre rimedio con una riduzione della spesa pubblica, ha esacerbato la tensione connessa alla trasformazione ‘fisiologica’ del sistema produttivo che già doveva riorganizzarsi dopo lo shock finanziario internazionale e gli effetti che questo ha prodotto sul sistema bancario e sul sistema di regole per la concessione di prestiti a privati e aziende.

Le Sfide per la trasformazione del sistema economico-produttivo

La storia che i dati e le considerazioni sin qui esposti raccontano non è dunque la storia di una crisi congiunturale. È piuttosto il racconto di una trasformazione di sistema, che per essere affrontata richiede l’abbandono di un certo tipo di retorica da “resistenza alla crisi” e di approntare una profonda ristrutturazione del sistema produttivo e dei servizi privati e pubblici. Nello spazio ristretto di questa trattazione, sono tre gli assi su cui è pensabile che si giocherà la sfida della competitività del sistema economico italiano.

Le opportunità – primo asse – proverranno da un approccio in cui al Made in Italy si accompagni una nuova capacità di gestire in modo intelligente catene del valore globali, acquisendo materie prime e prodotti intermedi sui mercati internazionali ma mantenendo il controllo della catena del valore al fine di realizzare in house quelle fasi della produzione a maggior valore aggiunto. È importante osservare quanto avvenuto in questo ultimo decennio tra Italia e Germania rispetto ad alcune grandezze macroeconomiche, dal momento che una loro lettura fornisce alcuni interessanti spunti di riflessione anche in relazione alle dinamiche osservate in precedenza.

Un dato da considerare riguarda certamente il diverso andamento della popolazione e degli occupati rispetto a quello del prodotto interno lordo generato dai due Paesi. A fronte di una crescita sostanzialmente a zero della popolazione tedesca dal 1995 al 2011, il Pil della Germania è cresciuto del 25%. La popolazione italiana è invece aumentata nello stesso periodo del 7%, a fronte di una crescita del Pil del 15%. Ancor più interessante il confronto in Germania tra l’andamento del Pil e l’evoluzione del numero di occupati. Se fino al 2000 la crescita del Pil sembra andare di pari passo con quella del numero di occupati, a partire da quell’anno le due curve presentano un andamento difforme, con il prodotto interno lordo che continua a crescere e il numero di occupati che tende a stabilizzarsi. Questo a differenza di quanto avviene in Italia e, nel dettaglio, anche in Veneto, dove l’andamento del Pil ha seguito, con buona approssimazione e su tutto il periodo, l’andamento del numero di occupati.

Un ulteriore confronto riguarda l’andamento dell’indice di propensione all’export, calcolato come rapporto tra il valore delle esportazioni e il Prodotto interno lordo. Mentre in Germania nel periodo 1995-2011 questo indice cresce progressivamente con un’intensità simile alla crescita del Pil (con un effetto moltiplicatore dell’export nella generazione del Pil), in Italia resta tendenzialmente stabile lungo l’intero periodo, con oscillazioni contingenti.

Rileva inoltre il fatto che, in un quadro di intensa crescita del Pil, in Germania la quota di valore aggiunto generato dalla manifattura sul totale dell’economia è rimasto stabilmente intorno al 23%. Una dinamica anche in questo caso diversa si evidenzia invece in Italia, dove la quota di valore aggiunto generata dal manifatturiero si è ridotta dal 22% del 1995 al 17% del 2011. Va a questo proposito osservato che la quota di valore aggiunto generato dalla manifattura, in Germania, è rimasta stabile anche a fronte di – anzi, probabilmente proprio grazia a – una crescente (nel periodo) incidenza dell’import nella composizione del valore della produzione industriale tedesca. L’interpretazione che se ne può dare sembra essere una elevata capacità, da parte del sistema produttivo tedesco, di governare la produzione di valore anche con un maggiore ricorso all’outsourcing internazionale. Va infine evidenziato il peso delle occupazioni service-related nella manifattura, ovvero di quelle professioni (manager, professionisti, tecnici, impiegati d’ufficio, impiegati nei servizi e nella vendita) che pur lavorando in ambito manifatturiero non sono direttamente impiegate nella produzione manuale bensì in servizi connessi a questa. L’incidenza di tali professioni è nel 2012 del 48,6% in Germania e del 37,7% in Italia.

Le sollecitazioni derivanti da queste considerazioni – per quanto solo accennate – suggeriscono di provare a leggere la relazione tra dimensione di impresa e competitività invertendo l’ordine dei fattori. Certamente la riprogettazione dei processi produttivi richiede adeguate risorse finanziarie e competenze interne, generalmente appannaggio di imprese di media se non grande dimensione, tuttavia è la sua effettiva implementazione (e non la dimensione di partenza in quanto tale) a influenzare il potenziale di crescita delle aziende manifatturiere. In questa prospettiva (1) maggiore contenuto tecnologico delle produzioni, (2) maggiori contenuti terziari nelle attività produttive, (3) maggiore qualità e specializzazione della forza lavoro, (4) maggiore controllo delle catene di approvvigionamento e distribuzione internazionale e infine (5) crescita dimensionale delle imprese rappresentano sempre più un quadro unitario di trasformazione delle economie regionali più che fattori separatamente perseguibili.

La sfida è dunque quella di approcciarsi in modo nuovo non solo alla commercializzazione dei prodotti ma ai processi produttivi, guardando alle best practice realizzate dal vicino di capannone così a quelle del produttore tedesco o asiatico, facendo scouting di possibilità produttive sul mercato internazionale, ripensando l’ingegnerizzazione dei processi produttivi. È un modo diverso di pensare e fare la fabbrica, popolata non più solo di operai ma di una varietà di figure in grado di gestire catene del valore globali. Indipendentemente dal fatto che la trasformazione produca una variazione del numero di addetti complessivamente occupati nel settore manifatturiero, ciò che per certo dovrà determinarsi sarà una crescita della capacità di generare valore aggiunto. Dovrà essere rinnovato anche il legame tra sistema produttivo e assetto infrastrutturale. Sempre più critico sarà l’inserimento dei luoghi di produzione nell’ambito di nodi funzionali prossimi alle infrastrutture. Non solo perché, data l’estensione su reti globali dei rapporti di fornitura e vendita, è sempre più cruciale la localizzazione ai nodi delle reti fisiche, ma anche perché è nei pressi di questi che si localizzano funzioni terziarie rare e di rango elevato.

Se finora l’attenzione si è appuntata sull’ambito manifatturiero, il settore terziario – secondo asse – non può ritenersi escluso da una necessità di innovazione e re-ingegnerizzazione. Siamo sicuri che oggi il settore terziario italiano (compresa la sua componente intellettuale) si trovi sulla frontiera competitiva? Siamo sicuri che se non ci fosse una barriera linguistica non si affaccerebbero sul mercato dei servizi anche fornitori stranieri? E siamo sicuri che, se potessero, le piccole imprese non si rivolgerebbero all’estero per i servizi terziari? Non solo al fine di migliorare le propria performance, dunque, (si pensi, come esempio, alle difficoltà sperimentate dalle banche locali per restare sul mercato), ma anche perché la capacità stessa della manifattura di rispondere alle sfide che le sono richieste dipenderà anche dalla capacità di rinnovarsi da parte del settore terziario. A questo appartiene infatti una serie di servizi – di progettazione, supporto all’import-export, sicurezza, infrastrutturazione, trasporti, credito, assicurazione – che pur non rientrando nell’ambito della produzione manifatturiera sono funzionali a questa, e concorrono anzi in modo determinante a massimizzare il valore aggiunto. Anche nel terziario serviranno maggiori dimensioni e una maggiore strutturazione.

Un terzo asse riguarda, infine, il sistema regolativo. Generalmente, e spesso a ragion veduta, la burocrazia italiana viene indicata come uno dei fattori di ritardo del Paese. Un fattore effettivamente critico ma che può essere fatto rientrare, a ben vedere, nella logica di efficienza del settore terziario di cui sopra. Ciò che invece si vuole qui porre in evidenza riguarda il fatto che anche leggi, regole e assetti istituzionali dovranno essere orientati a questo stesso sforzo di trasformazione e spinta in avanti. Gli adempimenti non sono solo una questione di tempo ma assumono particolare rilevanza nel determinare la visione dell’amministrazione pubblica come di un leviatano che si pone di traverso allo sviluppo del Paese.

C’è un quarto asse, in questa grande trasformazione, che richiederebbe di essere affrontato. Il condizionale è d’obbligo non per incertezza sulla sua rilevanza quanto per la complessità dello stesso e tuttavia non può esserne omessa quantomeno la citazione. Il riferimento è al dualismo che da sempre caratterizza l’Italia, tra nord e sud. L’auspicio è che il suo venir meno nell’agenda partitica posso consentire invece una forte riproposizione nei programmi istituzionali, evitando, almeno sì in questa fase di contrazione della spesa pubblica, di tentare di risolverla con logiche di sussidiarietà.


[1] Fonte: elaborazioni su dati Istat Coeweb.